Al rock teatralizzato alla Frank Zappa, Stefano Belisari, in arte Elio, è avvezzo per lunga militanza nel gruppo più estroso del rock italiano. Ha frequentato anche l’opera, il teatro musicale e lirico, ma mai si era avvicinato a Giorgio Gaber e al suo teatro canzone. L’ha fatto, dopo lunga meditazione, e gira per l’Italia con una versione riveduta del “Il Grigio”, il 30 novembre in scena al Creberg Teatro di Bergamo (inizio ore 21 biglietti disponibili).
La piece, grazie al regista Giorgio Gallione, è rimodellata su di una sensibilità aggiornata, sia pur in completa fedeltà all’assunto gaberiano.
UB - Perché non si era mai confrontato con il teatro canzone e come ha affrontato il Signor G?
SB - Come tutti sfrutto le occasioni che mi vengono offerte. Il fatto di avere una carriera aiuta. Non mi piace ripetere sempre le stesse cose, e quando arrivano delle offerte alternative, interessanti, non le lascio cadere. Quando vent’anni fa Azio Corghi mi aveva chiesto di cantare in una sua opera, l’ho fatto; non era un cantato lirico, ma pop, dovevo leggere dei testi. Era una cosa nuova che ero in grado di fare. Le nuove avventure le ho affrontato con lo stesso spirito di fattibilità. Sono incuriosito tantissimo dalle attività alternative; accetto quelle che so di poter affrontare. È accaduto con i musical che ho fatto negli ultimi anni. Quanto al “Grigio” è merito di Giorgio Gallione, il regista di Genova che mi aveva diretto nel musical degli Adams. Siamo amici.
UB - Come l’ha convinta?
SB - Ha iniziato amichevolmente ad assediarmi, con l’idea di rifare Gaber, cosa a cui non avevo mai pensato. Ritenevo fosse lontano da me, dalle mie corde. Però lui ha insistito, complice i responsabili della Fondazione Gaber. È passato del tempo. La sua idea era che io affrontassi “Il Grigio” tale e quale, come era stato scritto e pensato, cioè un monologo di due ore, una cosa che mi sembrava assurda. Così gli ho detto che la cosa poteva avere senso se inserivamo delle canzoni. Solo così avrei potuto accettare. E il regista è tornato all’attacco con una versione cambiata rispetto all’originale: accorciata e con l’inserimento di dieci canzoni di Gaber tratte da diverse epoche della sua carriera, anche se trattano i temi che riguardano quel testo originale. A quel punto non ho potuto dir di no.
UB - È una sorta di work in progress, dunque, pensato all’interno dell’universo gaberiano?
SB - Ammodernato, ma non troppo. In realtà “Il Grigio” resta quella roba lì. Pensi che verso la quinta o sesta replica mi è venuto a sentire Luporini e può solo immaginare la mia tensione. Alla fine dello spettacolo siamo andati a cena insieme, mi ha detto che era contento. Era preoccupato prima, perché aveva paura che i cambiamenti snaturassero il lavoro, invece ha notato che il flusso narrativo era di fatto intatto. Da un lato il lavoro è stato trasformato in una cosa più adatta a me, dall’altro sono in molti a ritenere oggi che il testo sia proprio così. Sono quelli che non hanno mai visto l’originale. Il testo resta solido, compatto. È chiaro che io non sono Gaber: non ci penso minimamente ad imitarlo, non sarei in grado. Però sul palco c’è molta della forza di quel testo originale.
UB - Testo che mantiene una sua modernità: tutti abbiamo innanzi l’incubo dei personali flussi di coscienza.
SB - Assolutamente sì. Questo è l’aspetto impressionante. Ed è il motivo per cui ho accettato di approcciare il testo: è del 1988, ma sembra scritto ieri sera. E non è un modo di dire. “Il Grigio” parla di noi, di quello che stiamo passando adesso. Ed è incredibile.
UB - È un fantasma che vive dentro di noi?
SB - Non è solo quello. Il tema di base c’è, ma ci sono altri sotto temi che vengono attraversati: roba che abbiamo sotto gli occhi adesso. Nella prima canzone c’è un riferimento all’immigrazione, ed è fatto nel modo giusto. Nel testo c’è un passaggio che dice: i popoli che premono sull’impero. Gaber aveva una visione molto lucida, direi preveggente.
UB - Come si è preparato a calarsi nei panni del Signor G?
SB - Ci sono stati gli anni del dubbio, poi quelli del timore: lentamente mi sono auto convinto, sino al bivio in cui mi sono trovato a dire sì o no. Alla fine ho detto un ni, un anno fa. Così ho chiesto al regista di fare una prova: tre serate alla chetichella senza dirlo in giro. Abbiamo allestito una lettura e siam partiti. La cosa incredibile è che io ce l’ho fatta, e il pubblico ha apprezzato. È una delle volte in cui sono stato davvero preso dal panico in scena, ma alla fine della serata Carla Signoris, la moglie di Crozza, è entrata in camerino in lacrime e ho capito che si poteva fare.
UB - E oggi che la piece va regolarmente in scena come si sente?
SB - Ho trovato gli stimoli giusti. Ogni sera è una sfida con me stesso. È la prima volta che sono in scena completamente solo. Ma tutte le sere la sfida si rinnova per un’ora e mezzo. Io che non sono attore e neanche un vero cantante, esco carico di complimenti, anche dagli appassionati. Il pubblico è diviso in due: quelli che hanno visto Gaber a teatro e quelli che non l’hanno mai visto prima, come me.
UB - In questi giorni è anche tornato in tv con la Dandini, in “Stati generali”. Cosa farà?
SB - Abbiamo registrato le prime cose con Rocco Tanica, ma con Serena siamo a casa. Ci siamo inventati le nostre cose: siamo Thescissionisti, rivendichiamo con forza il primato di aver esaltato la bellezza e l’importanza dello scioglimento prima dei Thegiornalisti.
UB - Ma quel saluto sanremese, “Arrivedorci”, resta una promessa? Non è un addio.
SB - Ma nella vita chi lo può mai dire. Quello che sta accadendo a noi, Elio e le storie tese, è quello che è accaduto ai Monty Python. Li pensiamo come gruppo di cinque o sei attori e registi e in realtà hanno lavorato indipendentemente come tutti noi Elii.