Un po’ lavoratori dello spettacolo, un po’ formatori, un po’ istruttori sportivi. Come tutti, chi lavora nel mondo della danza punta a prendere una boccata d’aria a livello economico-finanziario, ma tra il decreto rilancio di maggio e i ristori autunnali, districarsi tra codici ATECO e tipologie di sovvenzioni statali è tutt’altro che facile.
Eppure, come hanno iniziato a esigere con forza i lavoratori dello spettacolo, deve essere fatta chiarezza. Perché forse mai come nell’onda grande di questa pandemia mondiale – che non necessariamente crea, ma smaschera debolezze, inefficienze, crisi – emergono anche le piccole grandi falle del nostro sistema socio-economico. Ed emergendo richiedono di essere guardate in tutte le loro sfaccettature: non solo considerando le mancanze e gli interventi non più procrastinabili di tipo giuridico o contrattuale, e di conseguenza rimettendo in discussione un diritto al lavoro che richiede maggiori tutele. Ma anche riguardo ad aspetti più ampi: da una parte, siamo chiamati a osservare lo scarso peso politico che alcune categorie, a tutti gli effetti lavorative, ricoprono, e perché. Dall’altra, dobbiamo riflettere sul retroscena culturale e su come questo influenza la nostra percezione.
Danzatori e insegnanti di danza sono, appunto, lavoratori dello spettacolo, formatori, educatori, istruttori sportivi: qual è il ruolo, o i ruoli, di queste persone e qual è la nostra consapevolezza in merito? “Di cultura non si mangia” è uno slogan nefasto che ha fatto fin troppo chiacchierare, ma è ormai evidente che forse abbiamo bisogno di ridefinire alcune categorizzazioni. Sono tanti i ruoli che restano nell’ombra della nostra vita extra-professionale o familiare, come se all’idea di “tempo libero”, opposto a “lavoro”, corrispondesse una minor serietà o impegno nel dedicarcisi.
Non dovremmo stancarci di ripetere che la nostra eventuale leggerezza nel trascorrere il nostro “tempo libero” non implica altrettanta leggerezza – nel senso di mancanza di serietà – da parte della persona che ci guida, che sia un insegnante di danza o un attore in scena. Non solo: forse siamo poco consapevoli, o non ricordiamo abbastanza spesso, quanto certe attività, momenti o luoghi costruiscano il nostro benessere, in una vita adulta così come in quella di bambini e adolescenti.
Andare a un corso di danza non significa solo un paio d’ore a settimana di sfogo. Eppen ha chiesto a Federica Madeddu e Serenella Barbieri di raccontare difficoltà, speranze, paure di un istruttore di danza oggi a Bergamo. Tra l’incertezza (condivisa da tutte le fasce della popolazione) e la consapevolezza (forse meno chiara ai più) del valore inestimabile di uno spazio sicuro di espressione e di quanto pesi la sua mancanza.
“Riprendere a settembre non è stato facile: abbiamo dovuto organizzarci nei minimi dettagli per garantire il rispetto delle normative. Distanziamento, entrate contingentate, ampliamento degli spazi, materiali igienizzati... Un grosso investimento economico, ovviamente”. Serenella Barbieri gestisce Studio Danza Attitude, una scuola di danza classica con sede a Ranica che da circa trent’anni organizza corsi per tutte le età, dalle basi alla preparazione per i provini della Royal Academy di Londra. Come tutti, a marzo ha chiuso i battenti e, quando è progressivamente diventato chiaro che la crisi sanitaria non sarebbe migliorata in fretta, ha dovuto far fronte all’impatto economico sulla sua attività.
Le insegnanti che lavorano nella sua scuola – a tempo pieno – sono riuscite ad avvalersi del bonus mensile come istruttrici sportive e ora Serenella ha fatto domanda di credito d’imposta, per sgravarsi, in parte, del costo dell’affitto dello spazio. Poter tornare a lavorare a fine estate è stato un enorme sollievo, pur con un velo di timore: “Avevamo paura che non sarebbe tornato nessuno, invece c’è stato un grandissimo entusiasmo, e anche la determinazione a fare il possibile perché tutto fosse in sicurezza, da parte nostra, ma anche degli allievi e dei loro genitori”.
Purtroppo il cambio di abitudini, seppur meticoloso e attento, si è rivelato una condizione necessaria ma non sufficiente di fronte all’emergenza sanitaria. La seconda chiusura è una stoccata, soprattutto a livello psico-emotivo. “Ci sentiamo sul filo degli equilibristi. È faticosissimo”, afferma Serenella. Un equilibrismo che non si augurerebbe nemmeno a un artista.
“Si naviga nell’incertezza”, conferma Federica Madeddu, danzatrice e co-fondatrice di Casalulé, scuola di danza verticale a Martinengo. “Cerchiamo di tenerci occupati e di sfruttare questo tempo come ricerca, ma quando ripartiremo come sarà? Potremo ricominciare a fare il nostro lavoro?”. Oltre che tenere corsi di danza verticale, pilates, tessuti aerei, danza moderna e circo per bambini, Federica e i suoi colleghi fanno parte di una compagnia, Cafelulé. Per loro, la precarietà è su un doppio fronte: precari sul palco e precari nella loro scuola. Gli indennizzi per istruttori sportivi sono serviti ad arginare i danni economici e un bando del Comune di Martinengo, per cui Casalulé si è candidata, può aiutare con l’affitto, ma è più che altro l’indefinitezza del futuro a destare preoccupazioni, al punto che Federica e colleghi si sono ritrovati a prendere in considerazione un piano B per la loro vita professionale.
L’assenza è percepita, eccome. “Gli allievi sono molto amareggiati. Hanno assistito alla messa in sicurezza degli spazi e sanno che ci siamo impegnati al massimo… Ci sono arrivati moltissimi messaggi di vicinanza”, racconta Federica, ed è lo stesso per Serenella: “In primavera abbiamo cercato di mantenerci in contatto con bambine e ragazzine con video, piccole coreografie, messaggi, e abbiamo avuto una grandissima risposta. I genitori ne erano molto grati. Sono stati davvero felici di riprendere e ora sono molto dispiaciuti”.
Sono tantissime – e spesso eterogenee – le persone coinvolte nelle attività di una scuola di danza, tra chi ci lavora e chi la frequenta: dall’infanzia all’età adulta, allievi e genitori, amatori e professionisti o aspiranti tali. Una piccola popolazione che ruota intorno a un luogo che rappresenta molto: entrambe le insegnanti di danza ci parlano di una vera e propria famiglia che si costruisce intorno e dentro alla scuola. È proprio questa la caratteristica fondamentale di questi luoghi, che ci dà la cifra del loro vero ruolo: il fatto di diventare degli spazi sicuri di espressione e comunicazione.
“C’è un rapporto di grande affetto. Abbiamo avuto bambine che hanno iniziato a danzare con noi a 5 anni e sono ancora con noi oggi, da adulte. A volte arrivano le figlie delle allieve. Lo vedo in particolare dalle bambine piccole: si sentono serene, qui”, dice ancora Serenella. L’espressione, il confronto, la relazione, declinate in modo diverso a seconda della fase della vita, ma sempre fondamentali. Che si traducano nell’esigenza di creatività e gioco per un bambino, nella difficile costruzione di un’identità per un adolescente, o anche nella consapevolezza corporea per un adulto, tutto passa dal transito in uno spazio di libertà, dove ci si sente protetti e accompagnati. E a guidare queste esperienze ci sono gli insegnanti, che portano avanti idee e approcci educativi e relazionali, come quello di Federica:
“Per me la danza non è insegnare una tecnica, è tradurre in movimento un universo che abbiamo dentro. Alcune persone che ci frequentano da anni, ormai, vengono da noi per conoscersi, sfogarsi, trovare un canale di condivisione di energia e umanità. Vengono per stare bene”.
Sito Studio Danza Attitude
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