Seconda puntata dell’inchiesta sullo stato di salute del teatro a Bergamo. Ad ogni appuntamento parleremo con un addetto ai lavori, per puntare l’obiettivo sui punti di forza e i limiti del settore sul nostro territorio.
A questo giro incontriamo Enzo Mologni, 41 anni, scenografo e docente di scenografia, da dodici anni presidente dell’associazione Albanoarte e per dodici edizioni (su ventisei totali) direttore artistico di Albanoarte Teatro Festival ad Albano Sant’Alessandro. Quest’anno ha curato, sempre come Albanoarte, anche le scelte artistiche di SalvaMenti – Ricerche teatrali d’esistenze ad Osio Sopra e nel 2018 il Festival Terre del Vescovado.
Il festival Albanoarte si può descrivere come una piccola isola felice della provincia: proposte interessanti, nomi famosi, soprattutto capacità lungimirante che ha permesso di assistere a titoli e interpreti diventati poi di successo. E il pubblico non mancava. Nel teatro dell’oratorio sono arrivati personaggi noti al pubblico televisivo come Raul Cremona e Ale e Franz, ma anche Mario Perrotta, Marta Cuscunà e Carrozzeria Orfeo.
“Ho rimodulato la formula del festival e ho portato spettacoli da fuori, un po’ più impegnati per alzare sempre asticella. Ogni anno cercavo di capire cosa il pubblico di Albano e della provincia di Bergamo avrebbe apprezzato per creare una proposta caleidoscopica di spettacoli di alta qualità”, spiega Mologni.
Spettatori dai 35 anni ai 60 anni, provenienti da tutta la provincia e anche dal Nord Italia, come Verona, Pavia, Crema, Torino.
MV: Per Albanoarte, come sceglievi i titoli?
EM: C’erano alcune domande a cui uno spettacolo doveva rispondere. La prima: dal punto di vista tecnico, può stare nel nostro teatro? Poi le riflessioni riguardavano testo, linguaggio e cachet . Inoltre, quando ero in platea ad assistere a possibili titoli in altri teatri cercavo di percepire il pubblico, la sua risposta, per intuire se potesse andar bene per i nostri spettatori. Il pubblico cittadino è diverso da quello provinciale. E infatti, la provincia è considerata il campo di sperimentazione di tutte le compagnie teatrali.
MV: Ci sono spettacoli che sei orgoglioso di aver portato ad Albano?
EM: Davvero tanti. Ad esempio, quelli di Cristicchi, Perrotta, Musso, Questa, Cuscunà, Carrozzeria Orfeo e i tre internazionali. Due furono spettacoli francesi visti al festival di Avignone: “Micro” di Pierre Rigal, che fu anche il più costoso, pieno di energia con musica e danza, divenne un evento per un piccolo teatro di provincia; “Albertine Sarrazin” della compagnia Dare D’Art di Nimes, tradotto in italiano da una delle nostre attrici Grazia Vecchi, che poi fu preso dal Festival DanzaEstate e proposto al Teatro Sociale in Città Alta. Il terzo: “Teatro Delusio” della compagnia Familie Flöz.
MV: Quale è la strategia per fare crescere un festival simile?
EM: Ci sono strategie di gusto, ma anche marketing e poi azzardo come successe con lo spettacolo “Gomorra”. Tutto perché il festival potesse progredire e crescere nel contesto accentratore di Bergamo. La ricerca fu quella di riuscire a creare una piccola realtà a latere che fosse comunque d’ispirazione popolare, nel senso di storie che possano parlare alla gente, lasciando pensieri o sorrisi.
MV: Come si sosteneva la rassegna?
EM: Con il contributo fondamentale del Comune che nel tempo non è mai mancato ed è sempre aumentato. Poi Isacco Milesi, fondatore di Albanoarte, ebbe l’idea di far sostenere il festival dagli sponsor locali. Se Isacco chiedeva contributi a negozianti, io iniziai a domandare ad imprenditori, anche con l’aiuto della politica locale. Così è stato possibile chiamare ad esempio Cristicchi, Ale e Franz e “Micro”: gli imprenditori rimanevano affascinati dall’idea.
MV: Punti di forza e di debolezza per una rassegna piccola come Albanoarte?
EM: Di forza che gli attori si sono sempre sentiti trattati come amici e ospiti, si sentivano a casa. Aspetto che è sempre stato apprezzato e che li portava a loro volta a donarsi con generosità parlando con il pubblico a fine spettacolo. Per noi dell’associazione, poi, assistere a titoli di professionisti e magari andare a mangiare una pizza con loro era una gratificazione. Debolezza era la grande fatica per guadagnare spazio e farsi conoscere, anche a livello di stampa.
MV: Come sta il teatro a Bergamo e provincia?
EM: La gente ha molta possibilità di scelta. Ad esempio, l’offerta estiva è vastissima. Riflettendo in generale, però, una volta c’era una proposta molto più variegata, sperimentale, di peso. C’erano anche più soldi. Con il tempo, ci si è un po’ adagiati al mercato. Ora, un po’ anche per il fatto che organizzare un festival è sempre più difficile burocraticamente, si cerca di trovare spettacoli che possano dare meno problemi a livello organizzativo. C’è una grande città con il Donizetti, il Sociale, il Creberg e c’è una provincia che poco alla volta sta morendo, anche perché semplicemente i teatri non sono comunali, almeno non dalle nostre parti. Ad esempio in Emilia Romagna ci sono invece teatri comunali ovunque. Quindi come è successo anche a noi abbiamo dovuto chiudere perché c’era la fatica di trovare un altro spazio dopo che quello storico legato alla parrocchia del paese era venuto meno.
MV: Vi siete però spostati a Osio Sopra…
EM: Sì, per la direzione artistica di “SalvaMenti”: una rassegna con una sua specificità, legata al territorio e con tematiche sociali, che c’è stata affidata per cercare di valorizzare un teatro parrocchiale molto bello. Anche in questo caso, come per Albanoarte e Terre del Vescovado, l’ingresso è a pagamento con biglietti popolari. Un punto delicato, la gratuità.
MV: Cioè?
EM: La cultura non può essere gratuita, non in una nazione come quella italiana che non dà niente. Per cui, se io venissi pagato dallo Stato per dare cultura sarei felicissimo e proporrei cultura gratuita a tutti. Ma non è possibile perché nessuno mi dà niente per sopravvivere e perciò coloro che decidono di proporre spettacoli gratuitamente sono una sorta di pianeta a sé. La gratuità della cultura è un punto dolente e scatena tutta una serie di effetti collaterali. Basterebbero semplicemente due euro simbolici, un obolo che tolga dalla testa che la cultura è gratis. Così viene responsabilizzato di più il pubblico, rendendolo consapevole di avere contribuito affinché quel titolo fosse sul palco.
MV: Cosa ti piace del teatro nella Bergamasca?
EM: Ogni direzione artistica ha una sua logica intellettuale nello scegliere gli spettacoli, tutti hanno una loro specificità e tecnica. Insomma a occuparsi di teatro a Bergamo non ci sono persone sprovvedute, c’è oculatezza. Tuttavia il problema è sempre l’aspetto economico: come se avessimo dei piloti di Ferrari, ma stessimo guidando una Cinquecento.
MV: Tu in quanto direttore artistico come vivi il rapporto con il teatro in città?
EM: È una convivenza sapendo che nasce da due modi differenti di intendere la rassegna: la stagione teatrale di Bergamo ha una sua importanza storica e quindi ha l’obbligo di portare in città grande nomi, produzioni, regie. Ha anche un grande budget. Poi c’è una parte più sperimentale che però va a pescare su nomi consolidati e raramente prende realtà che suscitano una critica troppo forte. L’associazione Albanoarte non teme il confronto perché semplicemente non ci può essere.
MV: In che senso?
EM: Il budget è notevolmente inferiore, eppure abbiamo saputo dare anche suggerimenti alla città con spettacoli che sono andati nella rassegna maggiore di Bergamo e questo è molto bello. Forse la provincia ha sempre avuto questo aspetto: di non avere il peso di dover fare qualcosa di grande, d’istituzionale. Se ben piantata, la provincia non teme la città, ma la provincia sta diventando il dormitorio della città. E Bergamo è già il dormitorio di Milano. La cultura non ha spazi, la politica non investe perché ha pochi soldi e se deve tagliare lo fa nella cultura perché fa meno rumore. Eppure la cultura dovrebbe avere luoghi perché è parte integrante della vita delle persone.