“Affoga nel mio corpo, non nel mare” è un accadimento, una performance che diventa concreta nel racconto. È una confessione, un racconto di vita, è guardare da un altro punto di vista, è una riflessione su temi come l’amore, la migrazione, i pregiudizi, il corpo.
Un monologo teatrale dalla messa in scena essenziale scritto da Silvia Briozzo e Carmen Pellegrinelli, rispettivamente anche attrice e regista dello spettacolo (produzione Carmen Pellegrinelli e Residenza InItinere con il sostegno di Fondazione Cariplo e Regione Lombardia).
Vincitore nel 2017 del premio Experimenta, “Affoga nel mio corpo, non nel mare” nasce dal desiderio di raccontare la storia autobiografica dell’attrice, della storia d’amore che dura da più di quindici anni con suo marito, due persone che appartengono senza mediazioni a culture diverse. Lei italiana, lui senegalese. E dunque cosa vuol dire essere una donna italiana che sposa un uomo senegalese, ma pure cosa vuol dire essere un uomo senegalese che sposa una donna italiana.
Briozzo si è completamente affidata a Pellegrinelli e l’incontro tra le due autrici ha concretizzato le esigenze di entrambe: “Avevamo voglia di raccontare un grande amore completamente diverso da quello che viene raccontato di solito e affrontare il tema della diversità”.
Venerdì 25 ottobre alle 20.45 il titolo aprirà la nuova rassegna “SalvaMenti – Ricerche teatrali d’emergenza”, per la direzione artistica dall’associazione culturale Albanoarte, che si svolgerà ad Osio Sopra nell’auditorium San Zeno (ingresso 10 euro, riduzione 8 euro per gli under 14; info e biglietti nel link in fondo). Abbiamo fatto due chiacchiere con Briozzo.
M.V. - Ci racconti il titolo?
S.B. - Avevo scritto un testo, delle suggestioni quando lavoravo nel laboratorio multietnico di Dalmine. Questa frase mi piaceva in maniera particolare. Purtroppo non è più poetica, perché morire in fondo al mare è realtà. L’ho scelta come titolo perché mi pareva evocativa. E anche se mio marito non è arrivato su un barcone, è come se fosse testimone di tutti i migranti e poi, metaforicamente, è come se rivelasse la mia forza di saper accogliere. Nello spettacolo c’è un pezzo, forse tra i più belli, in cui per metafora il mio corpo è descritto come un porto e chiamo tutti quelli che ce la fanno a camminare e correre a venire da me e io li prendo.
M.V. - Perché portare in scena la propria vita?
S.B. - Perché è un po’ una vita fuori da alcuni canoni e poi forse soprattutto perché, in questo periodo dove ci sono grandi fatiche sullo sguardo verso i migranti, raccontare una vita insieme, e quindi privata e intima, mostra un lavoro sull’integrazione e sul tema affrontato da un altro punto di vista. Con Carmen abbiamo pensato veramente ti dare uno sguardo “strabico” sulle solite questioni sociali.
M.V. - La tua esperienza teatrale dimostra che l’incontro tra teatro e sociale è importate. Sei anche un punto di riferimento per iniziative che uniscono questi mondi.
S.B. - A volte rido perché quando c’è un problema mi chiamano. Negli anni ho sviluppato questa metodologia tutta mia, formata anche da una mia ricerca personale, che è fatta più di sensibilità che di tecnica. La sensibilità credo serva tantissimo in questi contesti: avere veramente un’attenzione alla cura, ad ogni singolo partecipante, in qualsiasi tipo di progetto laboratorio. È sempre un ricominciare da capo, ma mi rendo conto che ogni volta che riesco a portare a termine un progetto che svolgo in spazi e contesti diversissimi, dalla psichiatria alla disabilità, dai senzatetto ai migranti, è un modo straordinario per sperimentarsi dal punto di vista umano.
M.V. - Questa esperienza trova spazio anche nello spettacolo.
S.B. - Lavorare in questi contesti e in questo modo per me è un po’ pane quotidiano, sento questa necessità. Molto probabilmente perché anch’io vivendo queste cose personalmente me le sento addosso. Nello spettacolo approfondiscono questo aspetto con una doppia visione: da una parte c’è la figura dell’emigrato non accettato e dall’altra parte ci sono anche io, con il mio corpo che essendo un corpo che non è nei canoni, per un grande periodo di tempo è stato una grande fatica. Anch’io non mi sono sentita accettata. Quindi, è come se avessimo messo in parallelo queste due solitudini per capire cosa sarebbe successo, metterle vicine per farle incontrare.
M.V. - C’è stato un momento preciso in cui hai pensato di creare questo spettacolo?
S.B. - Pensavo che questa vita un po’ particolare avesse voglia di prendere il corpo e di essere messa in scena proprio per essere di testimonianza. Ciò che ha permesso di concretizzare è stato sicuramente l’incontro con Carmen perché anche lei, dal suo punto di vista, era interessata a parlare di diversità, differenze che sono temi anche a lei sono molto cari. Era uno spettacolo che sentivo addosso da troppi anni, mi sentivo come vivere una schizofrenia: essere una donna bianca italiana inserita socialmente ed avere questo compagno con cui c’è un grande amore, ma anche una grande fatica nella relazione perché l’integrazione è bella da raccontare, ma poi però poi bisogna viverla tutti i giorni.
M.V. - Raccontaci.
S.B. - Non è quella dei centri di accoglienza, che anche quelli hanno la loro fatica, ma vivere quotidianamente con una persona di un’altra cultura così diversa è sicuramente un’esperienza forte. In quel momento della mia vita, dopo sedici anni di convivenza e due figlie, volevo mettere anche un punto e dire e vedere dove ero perché la vita privata si intersecava con il mio lavoro, che è anche un impegno civile perché mi sento anche un ruolo di attivista in questa tematica. Era come se volessi decifrare quali erano i punti di incontro fra la mia vita sociale e quella privata e poi raccontare, per di più, anche dei pregiudizi, far vedere altre facce della medaglia: come riguardo le mie figlie. Nello spettacolo ci sono dei momenti in cui racconto la differenza di pelle, di corpi che abbiamo che fa pensare a tutti che siano adottate e perciò la ricaduta che questa cosa ha su di me su di loro. Anche altri pregiudizi: ad esempio, mio marito è laureato e io no; lui ha un lavoro a tempo indeterminato, io sono precaria a vita. Pensando all’immigrato medio si ha una certa idea, ma noi spiazziamo un po’ questo tipo di pregiudizi: noi siamo la prova che i pregiudizi lasciano il tempo che trovano.
M.V. - Quindi, questo spettacolo si può definire anche politico?
S.B. - Assolutamente sì e mi piace tantissimo parlarne come uno spettacolo politico. E non soltanto per l’immigrazione, ma anche per quanto riguarda l’aspetto del corpo perché il corpo politico non viene mai preso in considerazione, ma anche il corpo è oggetto di razzismo, e di questo si parla poco, e il mio corpo che è abbondante, è fuori dai canoni e dargli dignità è un atto politico.
M.V. - Il tema del corpo è importante nel tuo percorso teatrale, torna spesso nei tuoi spettacoli e laboratori.
S.B. - Per me il corpo racconta. Nel corpo noi abbiamo i segni della nostra narrazione intima, più che l’aspetto razionale e cognitivo. Tutti si appellano a quello, all’intelligenza, mentre a me piace partire da una concretezza di cui noi dobbiamo prenderci cura perché il corpo è sempre dimenticato, messo all’angolo e invece la prima relazione passa da quello, sotto l’aspetto emotivo e sentimentale. In questo periodo storico dove abbiamo i dispositivi e in cui ci si vede virtualmente, la ripresa del corpo è una bomba. Io che ho lavorato tanto in contesti diversi, l’attenzione al corpo è la cosa più importante dei lavori di cura. Ho trovato tantissime volte dalle fatiche nel toccare, nell’avvicinarsi, nel guardare negli occhi, come se il lavoro di cura fosse una cosa mentale, ma non è così: la prima cosa di cui ti prendi cura è il corpo. La prima cosa che vediamo dell’altro in tanti contesti è il corpo e decodificare il linguaggio del corpo per me è fondamentale per avere la base della relazione sociale.