Shilpa Bertuletti è una persona a dir poco interessante. Italiana e bergamasca, ma di origine indiana (nome e cognome spiegano tutto), è una danzatrice odissi, “uno stile di danza classica indiana originaria dello Stato dell’Orissa”. Vive stabilmente in Italia, ma va spesso in India per approfondire i suoi studi – sbocciati in un dottorato di ricerca a Bologna e in un libro – e la pratica dell’odissi. Una disciplina poco conosciuta nel nostro Paese, eppure straordinariamente affascinante e carica di spiritualità, tradizione, sensualità e quella potenza narrativa che è propria solo del gesto assoluto.
Tutto questo sarà al centro di “Jagatmandir”, la performance che Shilpa terrà sabato 20 luglio al Chiosco dell’Orto Botanico gestito da Sweet Irene insieme a Simona Zanini (ore 18.30, ingresso gratuito). Uno spettacolo di danza classica indiana tra Odissi e Bharata Natyam organizzato da Pasticceria Sweet Irene e Orto Botanico di Bergamo “Lorenzo Rota”, all’interno del calendario di eventi estivi di quest’ultimo.
Ho guardato su Youtube alcuni filmati di teatro-odissi. E la prima è stata quella di una danza tanto difficile quanto spirituale e espressiva. Da qui sono partito con la mia chiacchierata con Shilpa.
L.B. - Ciao Shilpa, a me pare che i gesti dell’odissi siano difficilissimi da praticare. È così? Ci sono gesti particolarmente ardui?
S.B. - Non si può parlare di gesti più difficili di altri, tutto il corpo è coinvolto nella pratica: l’odissi unisce l’aspetto nrtta, la forma cioè che compone il lato tecnico e qualitativo della danza, all’aspetto nrtya, l’espressione poetica dell’emozione che crea una connessione tra danzatore e spettatore. È la combinazione delle mudra, ovvero i gesti codificati delle mani, e delle espressioni del volto a dare un senso al racconto che viene danzato.
L.B. - Come ti sei avvicinata a questa forma d’arte?
S.B. - La danza ha fatto parte della mia vita da che ho memoria, anche se in forma completamente diversa, tra scarpette da punta e tutù. Durante il mio primo viaggio in India ho avuto la possibilità di visitare Nrityagram, un villaggio interamente dedicato alla danza dove ho successivamente studiato, e di vedere una lezione individuale ad un’allieva di danza odissi. I piedi nudi, la sinuosità, la perfezione del corpo e dei movimenti, il ritmo, l’espressività mi hanno attratta come una calamita. Tornata da quell’esperienza ho abbandonato il balletto e cercato un modo per tornare in quel mondo: da qui il dottorato e l’inizio del mio lungo training in odissi.
L.B. - Immagino sia anche una questione di radici.
S.B. - Per quanto mi senta culturalmente italiana, il mio corpo suggerisce un legame indissolubile con l’India che si manifesta attraverso la danza. Voglio andare ben oltre alla semplice conservazione delle origini, il mio impegno a lungo termine è quello di diffondere al pubblico italiano una bellissima arte che in pochi conoscono.
L.B. - Il teatro-danza odissi è una disciplina “scultorea e contenuta nella sua forma esteriore” ma richiede anche forza fisica e un forte controllo interiore. C’è anche una componente spirituale?
S.B. - Si può dire per esempio che il chouka, una posizione squadrata che ancora le gambe a terra, includa un riferimento all’iconografia del dio Jagannatha, la divinità tutelare della danza odissi. E che il tribhanga, la posizione che divide il corpo in tre linee secondo l’asse mediale, rifletta le immagini delle figure femminili rappresentate nei templi dell’Orissa e l’evocazione delle divinità principali. La danza fonde così elementi rituali, espressi nella recitazione del danzatore, al formalismo artistico espresso dalle competenze tecniche.
L.B. - L’odissi è anche sensuale però. Ci vuoi spiegare come?
S.B. - La tecnica della danza odissi valorizza il radicamento al terreno, che si avvale di spostamenti di peso e princìpi di equilibrio per creare forme sia lineari che curvilinee nello spazio. È la posizione del tribhanga e lo scorrimento orizzontale del torso da un lato all’altro del corpo a rendere il movimento curvilineo e di conseguenza sensuale.
L.B. - Ti chiedo di questi due aspetti perché l’origine dell’odissi in realtà è religiosa. Poi si è “mondanizzata” ed è diventata una forma d’arte e d’intrattenimento che è anche uscita dall’India. Come è accaduto questo passaggio?
S.B. - Negli anni Cinquanta l’indipendenza dell’India dal dominio britannico ha creato un clima di fervore culturale volto alla promozione di un’immagine nazionale valorizzante. È così che quattro guru si sono riuniti a tavolino per definire i criteri della forma classica ufficiale della danza odissi, attingendo a realtà coreutiche e artistiche preesistenti in Orissa. In questo modo la danza classica, da strettamente spirituale, è diventata un’arte di intrattenimento finalizzata a valorizzare la cultura indiana al pubblico mondiale, che affascinato e incuriosito si è approcciato a questa disciplina come ad una qualsiasi forma d’arte.
L.B. - La fonte delle performance odissi è la mitologia tradizionale indiana. Ci vuoi fare qualche esempio, magari anche riferendoti al tuo spettacolo?
S.B. - Le divinità del pantheon induista sono tantissime e si dilettano tra loro in giochi amorosi e battaglie di varia natura. Molte coreografie del repertorio odissi sono tratte da un testo intitolato “Gitagovinda”, letteralmente “Il pastore del canto”, che narra dell’amore tra il dio Krishna e la pastorella Radha: si racconta la storia dell’infedeltà di Krishna, della sua separazione da Radha, della gelosia dell’amata e del finale gioioso di ricongiungimento. In realtà tutte le divinità principali trovano posto nel repertorio classico: per esempio alcune composizioni traggono ispirazione dai poemi epici più noti, il Mahabharata e il Ramayana. Altre sono dedicate a Ganesha, il dio dalla testa di elefante e protettore degli artisti. Altre ancora all’indiscusso signore della danza, Shiva, o alla sua controparte femminile, Durga.
L.B. - Nel tuo percorso hai studiato con alcune delle più grandi guru dell’odissi. Cosa ti hanno insegnato?
S.B. - In India è il sistema guru-shishya parampara a definire la trasmissione dei saperi da maestro ad allievo, una relazione che coinvolge la vita intera e va ben oltre il semplice apprendimento della disciplina. Un maestro diventa non solo un mentore, ma anche un padre, un amico, un fratello. Dai miei insegnanti ho imparato a praticare e vivere con gioia, determinazione e fiducia. Ho imparato ad apprezzare il movimento come mezzo di comunicazione tra me e il mondo. Soprattutto ho imparato a vedere la bellezza nelle piccole cose e a trasformarla in danza.
L.B. - In India che cosa è oggi l’odissi?
S.B. - È ancora una forma d’arte percepita sia come spirituale che secolare, insegnata a tutti i livelli e diffusa dagli apparati statali attraverso festival di varia natura.
L.B. - Hai conseguito un dottorato in danza e identità di genere nell’India contemporanea. Ci vuoi raccontare in breve di cosa ti sei occupata?
S.B. - Ho analizzato come nel contesto contemporaneo le danzatrici agiscano nella costruzione di un’identità precisa, frutto dell’esperienza quotidiana della pratica, in un particolare contesto estetico ed emozionale. La politica della danza in relazione al nazionalismo, alla globalizzazione, alla localizzazione e alle questioni di genere mostra come le donne abbraccino l’odissi come una forma d’arte propria, trasferendo la danza dal contesto della “cultura alta” a una zona di mediazione culturale. Dalla tesi di dottorato è stata tratta una monografia edita da Clueb e disponibile sia online che in libreria dal titolo “La danza Oḍissī. L’identità culturale femminile nell’India contemporanea”.
L.B. - Qui in Italia dall’India arrivano spesso notizie di donne, anche molto giovani, spesso maltrattate e uccise. La danza ha un ruolo (magari di affermazione sociale) in tutto questo?
S.B. - Nella mia ricerca ho approfondito proprio il ruolo della danza come mezzo di affermazione sociale femminile nel sistema patriarcale che vige in India. Pur non avendo la pretesa di sapere la verità assoluta sulla situazione reale, posso dire da donna indiana che viaggia per conto proprio che non mi sento sempre in piena sicurezza. Evito i luoghi isolati, non viaggio sola di notte, adotto tutte quelle tecniche di sopravvivenza che le donne usano per proteggere sé stesse dagli sguardi e dalle attenzioni maschili.
L.B. - Tu sei cresciuta a Bergamo, grazie alle tue ricerche e alla pratica dell’odissi, hai ricevuto anche dei riconoscimenti. Come è stato crescere in questo Paese, dove oggi sembra ci sia un’escalation di sentimenti e comportamenti xenofobi?
S.B. - L’Italia è e sarà sempre il luogo che chiamo casa. La situazione per me è sicuramente diversa rispetto a quella di molti altri “stranieri” oggetto di parole e atti di razzismo: ho un cognome italiano che mi protegge, una famiglia bergamasca che mi ha cresciuta con amore e mi ha dato la possibilità di portare a termine gli studi, nonché la libertà di approfondire il mio legame con l’India. È stata proprio la cultura e i conseguenti riconoscimenti ad avermi salvata dalla xenofobia.
L.B. - Giri l’Italia proponendo la danza odissi. Quanto è l’interesse e quali sono le reazioni?
S.B. - Proprio con l’intento di diffondere l’arte a tutti i livelli, propongo esibizioni e spettacoli in varie realtà, dal teatro alle cene solidali, dagli incontri nelle librerie a performance all’aperto come questa all’Orto Botanico. La danza classica indiana di per sé è conosciuta da un pubblico di nicchia, ma è nelle realtà informali che mi rendo conto quanto sia facile attrarre neofiti di tutte le età, ammaliati dalle storie raccontate e dal linguaggio corporeo. In definitiva l’odissi può essere un mezzo colto per conoscere una realtà così lontana come quella indiana.
L.B. - Insomma nel tuo futuro c’è l’odissi.
S.B. - Potrebbe essere altrimenti?