Il motto dell’edizione 2021 del Festival Danza Estate, “Pronti a sbocciare”, indica tutta la nostra vulnerabilità. Può essere questa l’eredità della pandemia, in contesti in cui ogni singolo gesto con l’intento del contatto è amplificato al massimo, e in cui aprire le porte a un’intimità – una qualsiasi – è un atto sovradimensionato, dopo tanto rinchiudersi. Siamo più fragili, più esposti, più cauti, ma anche meno scontati nelle nostre manifestazioni quotidiane; più pronti a stupirci per delle azioni apparentemente semplici.
L’atto di danzare cristallizza tutta questa vulnerabilità e ce la sbatte in faccia, oggi, mostrandoci la dimensione precisa del movimento, quando si esprime ed esprime un’intimità, con la sua valenza politica. “Toccare - The white dance” è, non a caso, il nome del progetto precedente presentato da Cristina Kristal Rizzo, dance-maker di formazione e fama internazionale, da cui è sfociato successivamente “Echoes – danze trasparenti”, performance che l’artista porterà in scena al FDE domenica 27 giugno alle 18:30 e alle 19:30, nel chiostro del Monastero del Carmine.
Racconta Rizzo: “’Echoes’ arriva sicuramente dopo tutto quello che abbiamo trascorso. Quando ho concepito ‘Toccare’, prima del Covid-19, volevo indagare la questione politica del corpo, cosa mette in campo: è un toccare nel senso di toccare il mondo, ciò che sta intorno al corpo stesso”.
Che è qualcosa di molto più complesso rispetto a quello a cui siamo abituati. “Toccare” ha preso origini da una lettura fatta da Rizzo di una studiosa anglosassone, Karen Barad, che si occupa, tra le tante cose, di fisica quantistica in un’ottica umanistica. “Un suo bellissimo testo, ‘Performatività della natura’, è stato mia fonte di ispirazione. Secondo la concezione di cui scrive Barad, che deriva dalla fisica quantistica, la materia esiste anche nell’invisibile. Ogni micro-gesto che facciamo, quindi assume una valenza più ampia”. Il gesto diventa così squisitamente politico e apre miriadi di domande: chi – o cosa – tocca, come toccare, fino a dove toccare, con che qualità e perché farlo.
Ovviamente, l’arrivo del Covid ha aperto nuovi sguardi sulla portata del toccare. “La piega che ha preso il lavoro è stata ancora più interessante e urgente. Il toccare è diventato un gesto tolto, quindi ha assunto un valore ancora più elevato. Ho dovuto, ovviamente, rielaborare ciò che stavo facendo, aprire il pensiero. In qualche modo il nostro lavoro rientrava ancora di più nell’idea di una filosofia, di come stare nel mondo”. Con un’intenzione ancora più consapevole: “Echoes” è il risultato di una ricerca su corpi più appiattiti e depressi.
“Ho sentito che era un momento in cui era importante ristabilire delle misure nel mondo”, spiega la danzatrice. Misure improvvisamente sfalsate, che implodono nello spazio stretto delle case, si moltiplicano con la paura, ci rinchiudono all’interno dei nostri corpi e cancellano modalità di appropriazione dello spazio. E al tempo stesso privano della possibilità della condivisione. È questo, prima di tutto, che vuole restituire un lavoro come “Echoes”: “La dimensione di entrare in sintonia coi corpi, coi dettagli, in una danza al tempo stesso formale e nient’affatto formale”.
Nell’ottica del toccare il mondo nessuno e niente è escluso: è così che un oggetto come un cellulare si spoglia di qualsiasi valenza polemica o alienante e diventa particella agente sul modo di muoversi, quotidiano o meno.
“I danzatori in scena tengono in mano dei cellulari, a ristabilire il gesto del toccare. Io riconosco che l’interazione con uno telefono è un gesto che fa parte della corporalità, non è possibile metterlo in discussione. Entra a pieno diritto in una sfera di armonia e bellezza del corpo, e soprattutto all’interno di una modalità affettiva. È tutto meno che un device spoglio, freddo e spersonalizzante” .
Si crea così una dimensione che mescola in modo curioso, al tempo stesso molto familiare e perturbante, la tecnologia e l’intimità: “Sulla scena c’è un’asta da microfono a cui è fissato un telefono che riprende la performance. Danzatori e danzatrici, però, a turno lo prendono e lo agiscono”, spiega ancora Rizzo. La ripresa sarà trasmessa come live performance sul canale Facebook del Festival Danza Estate.
In un gioco di specchi/schermi, la camera del telefono entra quindi, al contempo, nel pieno della danza dei performer e nelle stanze di chi può seguire la performance da remoto. “Si apre uno spazio interiore che è uno spazio virtuale, a creare piani diversi: quello della danza che accade dal vivo, davanti al pubblico, e quello della danza ripresa, da un’altra prospettiva, disponibile a un pubblico altro, virtuale. Questo contribuisce a rendere molto affettivo questo oggetto”. È sia manipolato, come parte integrante della corporeità, sia un testimone di un movimento, con un occhio vicinissimo.
Un’altra dimensione in gioco in “Echoes” è quella musicale. A fare da sfondo alla danza, i pezzi di Frank Ocean, tappeto sonoro che dà la cifra della ripetizione quasi onirica. “Echoes”, infatti, è una durational performance; si tratta, cioè, di una sorta di flusso danzato che dura molto a lungo – forse più di due ore - in cui gli spettatori si inseriranno in due momenti diversi. “Elementi di movimento ricorrono, non esattamente in loop ma in una sorta di moto ondoso; ogni sequenza è un’onda in cui accadono delle danze – chiamiamole così – che ritornano con elementi simili, ma inevitabilmente diversi. C’è quindi l’idea della ripetizione nella differenza”.
È proprio questo moto ondoso che Rizzo ha ritrovato nei pezzi della star del soul r’n’b: “Lo definirei un incontro felice e fugace. Stavo riflettendo sull’idea del loop e mi sono imbattuta in queste tracce remixate di parti di sue canzoni, con un effetto di stretch e ripetizione all’infinito che si accordava perfettamente con il concept di ‘Echoes’. Quindi abbiamo scelto cinque, sei tracce che si intersecano alla partitura, in perenne cambiamento e mutazione”.
Le “danze trasparenti” del titolo sono uno splendido ossimoro: la danza, disciplina corporale per eccellenza, in cui vivere una matericità dei corpi, che però, al tempo stesso, sfuggono, come echi. “Per me, quest’idea rappresenta qualcosa che ti mostra cos’è l’arte, in tutta la sua semplicità e a dispetto dell’artificiosità; non tanto per la sua astrattezza, ma per il suo carattere di altro rispetto alla normalità. Alla fine dei conti, una forma di adesione alla bellezza”.