Attore teatrale, cinematografico, commediante. Uno di quelli “che tanto ci fanno divertire”. Ma Andrea Pennacchi sa anche indurre alla riflessione, raccontando il presente schizofrenico del nostro Paese in molte delle sue contraddizioni. Lo fa soprattutto attraverso un particolare personaggio, con cui si è fatto conoscere dal grande pubblico: il Pojana. Una figura “nata più di dieci anni fa come personaggio di un mio adattamento de ‘Le allegre comari di Windsor’ che avevo adattato in veneto, ambientandolo in una cittadina veneta”.
MR: Insomma Shakespeare e la provincia profonda.
AP: Uno dei personaggi era Frank Ford, Franco, ed era lui che faceva il famoso monologo dello shotgun, del fucile a pompa. Poi è entrato dentro uno spettacolo che io ho intitolato “Raise storte”, radici storte: visto che tutti hanno la fissa per l’identità e le radici mi piaceva l’idea di raccontare che le radici sono cose che vanno anche storte, sono sporche, vanno nell’umido della terra, nell’oscurità.
MR: Poi è arrivato il regista Francesco Imperato con il progetto contro il razzismo “This is racism”...
AP: Mi ha parlato di questo testo di Marco Giacosa dicendomi: sarebbe perfetto se lo facessi tu. Ho letto il testo e ho detto porca boia, questa è roba forte. Era il famoso “Ciao terroni”. Prima era ambientato a Torino, scritto in italiano, poi l’abbiamo adattato in veneto. Il personaggio che mi sembrava ideale per fare quel pezzo era il Pojana, che ancora non si chiamava così. L’ho fatto ed è successo quello che è successo, il deghejo, come si dice da noi.
MR: È lì è cominciata anche la collaborazione con Propaganda Live.
AP: Mi hanno chiesto prima di fare quel monologo per far vedere che era un attore che lo faceva. C’era stato questo equivoco per cui molte persone erano convinte che fosse un essere umano vero. Poi mi hanno chiesto se mi sentissi in grado di fare altri pezzi così. Non sapevo, gliel’ho detto: non so se sono così incisivo come Giacosa. Quel testo era forte e io ho un altro stile, un’altra capacità. Quell’anno si fermò lì la cosa. Poi Makkox mi scrisse di nuovo dicendo guarda, io ho letto le tue cose, secondo me sei in grado di farla sta cosa, proviamo. E abbiamo fatto un tentativo, e nel fare un tentativo si è pensato a che soprannome dare a questa creatura. Dal mio amore per gli animali è venuta fuori la poiana. E da lì è nato il Pojana: Franco Ford, detto il Pojana.
MR: Sì, alla fine è uscito un personaggio magnetico, che attrae e repelle. Perché credi abbia avuto tanto successo tra il pubblico?
AP: Sai, spesso chi crea qualcosa non ha proprio la percezione del perché. Sono come una madre, è figlio mio, lo riconosco, però... Lui a volte dice delle verità, robe che la gente sente dentro. Questo secondo me può generare simpatia, nel senso più atavico del termine. Forse è questo, l’equilibrio tra il condivisibile e l’odioso, il camminare su quel ponte stretto. Incarna un po’ le contraddizioni di tutti quanti, siamo tutti esseri contraddittori, e lui lo rende evidente.
MR: Certamente è un uomo “del fare”, uno che mette il lavoro prima di ogni cosa. Qualcosa che a Bergamo conosciamo bene: qui c’è chi l’ha messo persino prima della salute, con tutte le conseguenze che conosciamo. L’identità culturale si può ritorcere contro?
AP: Bergamo è il simbolo di una cosa che noi abbiamo soprattutto nel nordest, ma che non limiterei a quella zona. Questa cosa del fare, del lavoro, è anche epica a suo modo. Io ho presente mio nonno, mio padre, ai miei occhi sono dei giganti, gente che non riposava mai, che anche nelle situazioni più tremende non si buttava giù e andava a lavorare. Ci si è rivoltata contro perché diventa il lavoro fine a se stesso: non guardi mai al futuro, alle conseguenze a medio lungo termine, ma sempre a oggi, al massimo a domani. C’è questa etica del fai, fai, fai e non pensare. Alla fine chiede il conto, ha delle controindicazioni. Per me è comunque una cosa eroica, non sto dicendo che c’è da vergognarsene, ma a volte dovremmo fermarci e riflettere di più. Per poi tornare a lavorare.
MR: Oggi per te che significato hanno categorie come identità culturale, radici, senso di appartenenza?
AP: Per me sono tutto, tutto. Il problema è intendersi, perché essendo etichette possono significare qualsiasi cosa. Identità può essere una roba chiusa, un mascherone mortuario, oppure quella cosa che stiamo forgiando adesso. Le radici possono essere “le gloriose radici del nostro passato” oppure “la nostra storia è questa, e da qua andiamo avanti”. Tutto dipende da come la guardi, perché anche qui c’è pieno di contraddizioni. L’appartenenza per me è una cosa bellissima, io ci sono tornato all’appartenenza, e non penso che sia esclusiva: non è che siccome ho questo spiritus loci gli altri non lo devono avere. Per me chiunque viene qui o nasce qui è parte di questo nuovo spiritus loci. Il Veneto, la Lombardia, l’Italia cresce sulla storia che si fa nel momento in cui si fa, non sul passato glorioso, di cui peraltro spesso non sappiamo molto. Per me sono cose in movimento, un flusso in cui bisogna accettare quello che succede, e gestirlo.
MR: E per il Pojana cosa significano?
AP: Ah per il Pojana no, identità vuol dire io, neanche il gruppo. Radici vuol dire da qua non me movo, sto fisso sulla mia tèra, s’è mia e sto sul mio. E anche il senso di appartenenza è forte, nel senso che: s’è tutto mio, appartiene tutto a me.
MR: Come si racconta il presente in un contesto in cui la realtà sembra sempre più spesso la parodia di se stessa?
AP: Ah! È terribile, è un momento difficilissimo per chi prova a fare un po’ di commedia, perché io cerco di fare quello, commedia nel senso teatrale. Proprio l’altro giorno Makkox mi faceva notare un articolo della Stampa in cui si diceva la stessa roba che avevo detto, esagerando, nei panni di Pojana: che le piramidi sono il simbolo di schiavitù e quindi vanno abbattute. Poi non parliamo di politica italiana perché siamo veramente surclassati, non c’è gara, siamo sconfitti. Quando guardo De Luca mi chiedo perché non sono un attore così bravo. Come fai, sono tutti showman ormai...
MR: Quindi chi si occupa di comicità e di commedia quale suolo ha? Cosa e dove può seminare?
AP: Io credo che prima di tutto ci sia sempre uno strato profondo, perché tutto questo è la superficie. La commedia profonda è quella che ti fa ridere ma ti fa anche capire delle cose in più: di te, di quelli che ti circondano, di tutti gli esseri umani. È un po’ il motivo per cui è nata in fondo, come la tragedia. La buona commedia è quella che sa gestire anche i fatti tragici della vita, assorbe, entra nella vita. Quella roba lì i politici ancora non la sanno fare. È ancora roba nostra.
MR: Un esercizio molto più complicato, in effetti...
AP: Siamo più lenti eh, perché arare il terreno è più faticoso che zampettarci sopra cogliendo rose. Quando però qualcuno di noi riesce a tirar fuori qualche commedia di valore allora ti accorgi che la differenza è grande. La commedia di valore è qualcosa che resta e in qualche modo diventa universale. Ancora adesso stiamo ridendo di Aristofane, o vediamo le commedie all’italiana, quelle belle delle prime ondate, con un misto di divertimento e di realizzazione del fatto che quelli siamo noi. È un lavoro che possiamo continuare a fare, che facciamo, e che alcuni di noi fanno molto bene.
MR: Trovi sia in salute oggi la commedia italiana?
AP: Quando c’è una crisi commedia e teatro tornano fondamentali. È indomita diciamo, e credo si cominci a capire che ce n’è bisogno, di commedia e commedianti. Sarò ottimista, non so. Serve anche che i commedianti capiscano bene che cosa vogliono fare. Però sì, diciamo che si percepisce quanto ancora sia necessaria, quando fatta bene ovviamente. Poi, la commedia che tira fuori il titolo divertente di tanto in tanto, quella non sta tanto bene. Quella nuova che reagisce alla realtà, quella sta bene.
MR: Sei già intervenuto a Radio GAMeC. Questa volta cosa farai?
AP: Porto un pezzettino dell’Iliade che, per questo mio senso di appartenenza di cui parlavamo prima, vivo come se fosse il mio quartiere. Per me Ilio dalle belle mura è il mio quartiere. La porto vicino a casa ma resta quello che secondo me è il regalo più bello che ci hanno fatto gli antichi: il senso di come gli uomini sono fragili, teneri, esposti a ogni soffiata di vento, ma proprio per questo diventano meravigliosi, sublimi, soprattutto quando stanno assieme, quando sono uniti, quando si vogliono bene, quando lavorano assieme, si proteggono, combattono, nonostante la disparità di mezzi rispetto al destino. Questa è la cosa che più mi riempie il cuore quando la racconto.