È agosto: Avetrana è un paese della Puglia, dove non succede mai niente. Una tranquilla località del Sud Italia, con meno di 7.000 abitanti, immersa nei ritmi lenti della provincia.
Ma nell’estate del 2010, la sparizione e l’omicidio della quindicenne Sarah Scazzi trasformano il paese in un palcoscenico mediatico, segnando un punto di non ritorno. Inizialmente, la serie che si doveva intitolare «Avetrana – Qui non è Hollywood» è stata sospesa in seguito a una querela presentata dal sindaco di Avetrana, Antonio Iazzi. Secondo il primo cittadino, la produzione avrebbe leso l’immagine del paese, perpetuando lo stigma legato al tragico caso di cronaca nera.
Curiosamente, il sindaco ha richiesto una rettifica sul titolo della serie, sottolineando che la comunità di Avetrana ha sempre lavorato per superare i pregiudizi nati dal caso, una tragedia che sconvolse profondamente la collettività. A testimonianza di questo impegno, l’ente comunale si costituì parte civile nel processo penale contro Michele Misseri e gli altri imputati, nel tentativo di difendere la dignità e l’immagine del paese.
Così, dopo il ricorso il 30 ottobre è stata rilasciata «Qui non è Hollywood», divisa in quattro episodi della durata di un’ora che propongono una narrazione inedita e più intima del caso. Ogni puntata è dedicata a uno dei principali protagonisti della vicenda: Sarah, Michele, Sabrina e Cosima.
Una chiave di lettura sociologica
Nel modello sociologico di Ferdinand Tönnies, Avetrana prima dell’omicidio rappresentava una «Gemeinschaft», ovvero una comunità tradizionale dove i rapporti personali erano il fulcro della vita sociale.
La serie tratta dal libro «Sarah. La ragazza di Avetrana» si immerge, infatti, nel cuore di un Sud dove la morte non è solo fine, ma presenza costante, intrecciata con credenze, destino e una spiritualità che si nutre di soprannaturale.
Questa visione trasforma Avetrana in qualcosa di più di un semplice scenario: il paese diventa un microcosmo intriso di simboli atavici, un luogo sospeso tra realtà e mito, in cui i personaggi sono stretti in un intreccio di visioni, paure e ossessioni. Sarah, adolescente inquieta, sente addosso il peso di un luogo che le appare come una condanna, un posto da cui fuggire. Michele, suo zio, è invece divorato da un senso di colpa che si mescola alla fede e alla paura per il giudizio divino.
Anche la colonna sonora, scandita dalle hit pop di quegli anni come «Obsesión» degli Aventura o «Rap Futuristico» di Fabri Fibra, è funzionale a questo gioco delle parti: canzoni leggere che risuonano in una narrazione greve, sottolineando l’eterna contraddizione tra modernità e tradizione.
La serie ha quindi il merito di scavare nel tessuto emotivo e spirituale di una terra che sembra trattenere i suoi figli, mettendo in scena un’intera cultura, fatta di ombre e ritualità. L’umanità dei protagonisti si confonde con una dimensione quasi magica, in un racconto che non giudica ma svela, con delicatezza, il peso ineluttabile di un destino che sembra già scritto.
Quando la società irrompe
Con la sparizione e l’omicidio di Sarah Scazzi, il paese si è trovato improvvisamente al centro di un ciclone mediatico senza precedenti. Questa esposizione ha scardinato gli equilibri locali, accelerando la trasformazione verso una «Gesellschaft», un sistema sociale frammentato, in cui le relazioni sono più distanti e mediate da interessi economici e dai media. Il passaggio non è stato solo sociologico, ma anche morale, rivelando una profonda contraddizione: da una parte, una comunità sconvolta dal dolore; dall’altra, una porzione di questa stessa comunità che si è adattata al nuovo ruolo di “palcoscenico”, sfruttando l’attenzione dei media.
La serie rappresenta bene i momenti in cui, con l’arrivo delle troupe televisive, dei giornalisti e dei curiosi, Avetrana ha cambiato la sua fisionomia, con alcuni degli abitanti che hanno colto l’occasione per approfittare della situazione, trasformando il dramma in un’opportunità economica. Vicini di casa coi quali, nelle comunità locali ci si scambia abitualmente il sale, mettevano a disposizione balconi e terrazze ai giornalisti per somme esorbitanti, offrendo il miglior punto di osservazione possibile sulla casa della famiglia Scazzi o sul luogo delle ricerche. E come dimenticare il pullman dei curiosi che si ferma davanti al paese segnato dal delitto di Sarah Scazzi. Con tanto di guida che, con tono quasi solenne, indica con il dito e spiega: «Ecco, questa è la villetta della famiglia Misseri».
Il bar del paese, che prima era frequentato da pochi, si è improvvisamente trasformato in un centro nevralgico, sempre pieno, con telecamere puntate e avventori curiosi che cercavano di captare ogni dettaglio della vicenda.
Basandosi sugli atti processuali e sul libro di Carmine Gazzanni e Flavia Piccinni, consulenti della serie e il regista Pippo Mezzapesa e i suoi cosceneggiatori (Antonella W. Gaeta e Davide Serino) puntano a indagare il contesto umano e psicologico dietro agli eventi.
Le persone dietro ai personaggi
Il primo episodio si concentra su Sarah Scazzi, la vittima al centro di questa drammatica vicenda. Interpretata con straordinaria delicatezza da Federica Pala, Sarah appare come una ragazza semplice e sognatrice, che desidera sfuggire ai confini di un’esistenza monotona. La serie restituisce al personaggio una profondità che spesso le è stata negata, mettendo in luce la sua vita quotidiana, i rapporti familiari e le piccole aspirazioni di un’adolescente di provincia, la sua tenerezza di bambina quando chiede alla madre «Mi abbracci?»
Sabrina Misseri, cugina e migliore amica di Sarah, è al centro del secondo episodio. Giulia Perulli (che per interpretare il personaggio ha preso 12 chili) offre una performance intensa e credibile. Ne vediamo le insicurezze, il senso di inadeguatezza, la gelosia immotivata nei confronti della cuginetta e infine il senso di colpa quando prende coscienza di quello che ha fatto accecata dalla rabbia.
La terza puntata analizza la figura di Michele Misseri, zio di Sarah e primo a confessare l’omicidio, con un’interpretazione magistrale di Vanessa Scalera. La serie esplora il suo ruolo nella vicenda, dai primi racconti contraddittori alle numerose versioni fornite durante il processo.
Paolo De Vita dona al personaggio un’incredibile complessità, mostrandolo come un uomo fragile, travolto dalla sua stessa narrazione e dalle dinamiche familiari. Lui osserva impotente la sua famiglia sgretolarsi, un frammento dopo l’altro. Vorrebbe fermare il disastro, trovare un modo per riportare ogni pezzo al proprio posto, ma ogni tentativo non fa che peggiorare la situazione.
Il quarto episodio è dedicato a Cosima Serrano, madre di Sabrina e zia di Sarah, interpretata da una straordinaria e irriconoscibile Vanessa Scalera. La serie la presenta come una figura enigmatica, il cui silenzio e autorità hanno alimentato le speculazioni mediatiche, ne mostra l’umanità e la freddezza, la dolcezza e la cattiveria, alimentando nello spettatore dubbi, sospetti e tentennamenti.
La responsabilità e l’etica del giornalismo oggi
Il caso Sarah Scazzi è stato un banco di prova per l’etica del giornalismo italiano. La serie non risparmia critiche alla gestione mediatica del caso, rievocando momenti come l’annuncio della morte di Sarah, dato in diretta televisiva alla madre Concetta Serrano. Questo episodio ha segnato uno dei punti più bassi nella storia della cronaca nera in Italia, sottolineando l’assenza di rispetto per la dignità delle vittime e dei loro cari.
«Qui non è Hollywood» analizza il confine labile tra informazione e spettacolo, mostrando come il sensazionalismo possa trasformare le tragedie in intrattenimento fine a se stesso. La produzione offre una riflessione sull’impatto devastante della sovraesposizione mediatica e sulla responsabilità delle narrazioni.
Sarah Scazzi rimane il cuore pulsante di questa vicenda: una giovane vita spezzata, vittima di un male che non trova spiegazioni semplici. Forse, come suggerisce la serie, alcune domande non hanno risposta e il vero compito è raccontare con rispetto e umanità.
Nonostante tre gradi di giudizio abbiano condannato Cosima Serrano e Sabrina Misseri all’ergastolo per l’omicidio di Sarah, Michele Misseri, inizialmente reo confesso, continua a dichiararsi l’unico colpevole. La verità resta avvolta nel mistero e forse, ad oggi, comprendere dinamiche familiari hanno portato a un crimine così efferato, sembra aver perso significato e valore.
«Qui non è Hollywood» sposta l’attenzione dal delitto al caos mediatico che ne è seguito. Più che sulla tragedia, si concentra su ciò che l’ha avvolta: il fiume di telecamere, l’assalto dei talk show, la folla di curiosi che cercava un posto in prima fila nel dramma altrui. La serie esplora come la vicenda sia stata trasformata in uno spettacolo collettivo, in cui ognuno – dai giornalisti agli opinionisti, fino ai semplici spettatori – ha giocato un ruolo in questa narrazione morbosa e senza tregua.
Ed è proprio qui che la rappresentazione trova il suo nucleo più incisivo. Evitando di indugiare nel crimine e nei particolari più macabri, ci chiede di riflettere sul nostro voyeurismo, sulla fame di dettagli che alimenta il sensazionalismo. E in fondo, sembra dirci, che prima di puntare il dito sull’orrore dovremmo preoccuparci dell’orrore che ci portiamo dentro.