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Con «Pressione Bassa», Giorgia Fumo racconta la seconda giovinezza dei Millennials

Intervista. Il prossimo 17 luglio alle 21 la stand-up comedian sarà sul palco di NXT Bergamo con la versione estiva di uno spettacolo che ironizza sulle difficoltà dei trentenni di oggi, ma anche sulle loro conquiste

Lettura 6 min.
Giorgia Fumo (©Laila Pozzo)

Classe 1987, Giorgia Fumo è nata a Roma e cresciuta in Sardegna. A Pisa ha conseguito una laurea in Ingegneria, per poi fare la digital strategist (di giorno) e la comica (di notte). Oggi è una delle voci più incisive della comicità italiana: dopo aver solcato i palchi televisivi di Comedy Central e RaiDue e riscosso successo anche su Sky Uno con «Italia’s Got Talent», Giorgia Fumo ha cominciato a portare i suoi spettacoli in giro per l’Italia offrendo uno spaccato esilarante e intelligente sulla sua generazione, i Millennials, a cavallo tra due mondi ben distinti.

Da un lato ci sono i Boomer, che hanno goduto di un benessere che sembra ormai irraggiungibile, e dall’altro la Generazione Z, che vive all’insegna dell’autenticità e di un approccio senza filtri alla vita. Noi trentenni, invece, sembriamo essere il grande rimosso: cresciuti con una retorica che ci ha preparati a un mondo che non esiste più, ci ritroviamo a barcamenarci con le briciole lasciate dai nostri predecessori. Non più giovani, ma nemmeno disposti a essere considerati vecchi, siamo spesso oggetto di scherno tanto dai più grandi quanto dai più piccoli. Tra relazioni fugaci, lavori effimeri e vacanze che devono essere necessariamente memorabili, la nostra è forse la generazione più nostalgica di sempre. Siamo cresciuti con «Dawson’s Creek», «Bim Bum Bam», la «Melevisione», Messenger e i pantaloni a vita bassa che, ahinoi, tornano di moda proprio quando abbiamo deciso di farci un regalo che segna definitivamente l’ingresso nella vita adulta: lo sfigmomanometro.

Giorgia Fumo, con la sua comicità tagliente ci offre uno specchio in cui rifletterci e, allo stesso tempo, ridere di noi stessi. Un viaggio attraverso le contraddizioni e le peculiarità di una generazione che cerca ancora il proprio posto nel mondo, mentre prova a capire se dovrebbe rispolverare il vecchio Nokia 3310 per darsi un tono vintage.

CP: Giorgia, spesso nei tuoi sketch ironizzi sulla tendenza delle aziende odierne a rinominare i ruoli senza che il contenuto effettivo del lavoro cambi realmente. Ti sei data una spiegazione?

GF: Penso che questa tendenza derivi dal fatto che oggi i contratti di lavoro spesso non offrono più quella gratificazione economica o di status che ci facevano sentire davvero legati al nostro impiego. L’adagio “chi lascia la strada vecchia per la nuova sa quel che lascia, ma non sa quel che trova” sembra aver perso di significato. Le opportunità sono così scarse che l’idea di lasciare un lavoro per provarne uno nuovo non è più tanto spaventosa. Non è più una questione di restare fedeli a un lavoro per mantenere un certo stile di vita o status sociale. Al contrario, molti sono pronti a esplorare nuove strade e sperimentare nuovi percorsi professionali, proprio perché il lavoro attuale non offre più la sicurezza e il riconoscimento di un tempo. Quindi l’attenzione si è spostata più sulla forma che sul contenuto.

CP: Anche tu hai cambiato diversi lavori: sei un ingegnere, hai fatto la digital strategist, l’analista e oggi sei una comica. Come ti descrivi quando devi raccontare chi sei anche a chi non ti conosce?

GF: Sono restia a parlare troppo di me stessa, perché non voglio sembrare autoreferenziale. Tuttavia, mi sto rendendo conto che dovrei raccontare di più quello che faccio, perché da quando mi dedico esclusivamente alla comicità, ho notato che la gente tende a non prendermi sul serio. Forse è importante spiegare meglio che, sì, faccio la comica, ma le cose che racconto vengono da esperienze reali e da altri lavori che ho fatto in passato. Sto ancora cercando di trovare un modo per far capire che dico delle cose perché ho fatto delle cose.

CP: Il tuo spettacolo «Vita Bassa» racconta degli aneddoti legati alla vita che conducono i Millennials. Qual è il messaggio che vuoi trasmettere?

GF: Vorrei far capire a chi mi viene a vedere che ogni generazione ha fatto il meglio che poteva con le circostanze del suo tempo e che, per questo motivo, i conflitti fra generazioni sono spesso inutili. Alla fine, dobbiamo tutti lavorare insieme per mandare avanti il paese, in un modo o nell’altro. Tuttavia, è innegabile che alcune generazioni abbiano avuto meno opportunità rispetto ad altre. Mi piacerebbe che i più grandi fossero più consapevoli delle difficoltà che i giovani di oggi affrontano. Spesso, i loro consigli, basati su esperienze passate, risultano inapplicabili al contesto attuale e non fanno altro che acuire la distanza. Nel mio spettacolo, cerco di far emergere questo messaggio senza esplicitarlo troppo. Mi piace pensare che il pubblico possa cogliere queste sfumature attraverso le storie e le battute che dico sul palco. Mi rende felice ricevere messaggi da spettatori più anziani che mi ringraziano per averli messi di fronte ad un punto di vista diverso dal loro. C’è chi mi racconta di aver parlato di questi temi con i propri genitori per la prima volta, magari durante il viaggio di ritorno dopo lo show. Questo è forse ciò che mi dà più soddisfazione.

CP: Qual è quindi l’aspetto più difficile dell’essere un Millennial?

GF: Una delle sfide più difficili per noi Millennials è accettare che non siamo più giovani, nonostante spesso ci ritroviamo a fare una vita da giovani. È difficile ammettere che i ventenni ora sono altri, e che ci troviamo a ripetere le stesse frasi che sentivamo dai nostri genitori, pur sentendoci ancora molto giovani. Questa transizione è complessa perché non siamo ancora adulti nel senso tradizionale, ma in questo c’è anche una ricchezza: abbiamo inventato un nuovo modo di essere adulti. Anche se si dice spesso che “i trenta sono i nuovi venti”, la società continua a comportarsi come se l’unica fase della vita degna di essere vissuta sia la giovinezza. Tuttavia, non è così. Lasciare alle spalle le ansie e le pressioni di quella fase può essere liberatorio.

CP: La percezione di dover essere sempre affermati e sicuri nel lavoro può essere frutto della cultura del successo da cui proveniamo?

GF: Col tempo ho capito che questa pressione è in gran parte un’illusione. Personalmente, ho fatto molti dei passi tradizionali in tempo: mi sono laureata, mi sono sposata. Forse, se non li avessi fatti, sentirei più ansia da prestazione. Ma in realtà, la soluzione sta nel non passare troppo tempo nella propria testa, preoccupandosi di ciò che pensano gli altri. La verità è che agli altri non importa molto di noi. Non si sposano, non si laureano e non fanno scelte di vita per dimostrare qualcosa a noi. Questa è una lezione che ho imparato grazie al teatro e all’improvvisazione.

CP: Che ruolo hanno avuto i social nella tua carriera?

GF: Se non fosse stato per i social, avrei avuto grandi difficoltà a farmi notare nel mondo della comicità. Mi sarei probabilmente dovuta trasferire in qualche grande città e cercare di attirare l’attenzione di autori e distributori teatrali che, per lungo tempo, hanno snobbato il mio tipo di comicità. Non rientravo né nel profilo di persona né nello stile di comicità che l’establishment solitamente favorisce o riconosce, semplicemente perché ho cercato di distaccarmi dai soliti cliché legati alla comicità femminile. Grazie ai social, invece, ho potuto stabilire un contatto diretto con il pubblico. Le persone che apprezzavano il mio lavoro hanno potuto trovarmi, seguirmi e sostenermi, creando una massa critica che ha fatto sì che anche gli altri si accorgessero di me. I social sono stati una risorsa incredibile, soprattutto per chi, come me, vive in provincia e propone idee nuove. Sono insostituibili in questo senso. Ricevo anche delle critiche: quella più comune è che le donne non fanno ridere. Ma non lascio che queste sciocchezze mi abbattano, vado avanti, continuo a fare il mio lavoro e a riempire i teatri. I sold out sono la risposta più forte e concreta.

CP: Nei tuoi sketch spesso ironizzi sulla tendenza dei genitori a spingere le figlie a fare attività considerate tradizionalmente maschili come sintomo di emancipazione. Puoi spiegarci la critica che si nasconde dietro?

GF: La mia critica riguarda le aspettative esagerate che spesso si riversano sui bambini. Quello che vedo è che questi piccoli non vengono trattati come bambini, ma come una rappresentazione del successo dei loro genitori. Mi fa ridere e tenerezza vedere questa attitudine. Genitori che trattano i figli come piccoli trofei, spingendoli a imparare il cinese, a eccellere in mille attività, solo per dimostrare quanto siano moderni e capaci. Capisco che vogliano il meglio per i loro figli, ma spesso si perde di vista il fatto che i bambini hanno semplicemente bisogno di spazio per essere sé stessi.

CP: Un altro sketch molto divertente è quello dei bambini che impersonificano dei piccoli adulti in carriera. Come è nata questa idea?

GF: Ho una nipotina che aveva quattro anni all’epoca. Un giorno sono andata a trovarla e ho notato una mensola strapiena di lavoretti fatti da lei. Quando ho chiesto a mia cognata quando fossero stati realizzati, mi ha risposto che erano quelli degli ultimi tre mesi. Ho riflettuto su come i bambini vengano trattati quasi come operai in una fabbrica, abituati sin da piccoli ai ritmi di lavoro e alle aspettative di produttività. A quell’età, sembrano già vivere una vita simile a quella di un piccolo ufficio. Durante la nostra conversazione, mentre mia cognata parlava, ho visto la mia nipotina seduta a tavolino che si è spostata i capelli dal viso con un gesto che faccio spesso anch’io con il dorso della mano. Ho pensato che non dovevo lasciarmi scappare l’opportunità di parlarne.

CP: Che funzione ha per te la comicità oggi?

GF: Quella che ha sempre avuto: far ridere la gente, farle staccare il cervello per un’ora da tutti i possibili problemi che può avere. Se fai il comico la gente che viene al tuo spettacolo deve innanzitutto divertirsi e star bene. Il resto va da sé.

CP: Cosa fa ridere te e cosa invece ti commuove?

GF: Mi fanno ridere cose molto, molto stupide. Non sono un intellettuale raffinata: a me fanno ridere i meme. Mi fanno ridere i giochi di parole stupidi e anche i Monty Python. Un ventaglio di cose molto ampio. Per quanto riguarda le cose che mi fanno commuovere, ragazzi, c’è una serie di video di TikTok con cui sono in fissa in questo periodo che vi consiglio se volete piangere a dirotto: quelli dei cani che riabbracciano i loro padroncini di ritorno dalle missioni militari all’estero. A dir poco catartici.

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