Dal 2016, anno di nascita della performance, C&C Company ha continuato a sviluppare questo lavoro, destinato a mutare a seconda del contesto in cui è presentato. Al punto che quando si presenta l’occasione di un momento residenziale – quindi qualche giorno di studio e ricerca – nel luogo dove avverrà la performance, il danzatore in scena Carlo Massari si concentra sul terzo personaggio, L’Altro, per reinterpretarlo in modo originale e organico allo spazio in cui si trova.
Questa volta lo spazio in questione è il palco del Chiostro del Carmine in Città Alta, a Bergamo, dove “A peso morto” – insieme a un secondo spettacolo, “Harleking” – andrà in scena domenica 2 agosto alle 21.30, all’interno del Festival Danza Estate 2020 in collaborazione con TTB Teatro Tascabile Bergamo (info biglietti qui). Carlo Massari ci racconta cosa rappresenta la sfida di “assorbire un ambiente ogni volta diverso” e come viene elaborato il suo personale linguaggio performativo.
LD: “A peso morto” è pensato come relazione tra l’uomo e lo spazio urbano che abita. Come evochi lo spazio in scena e come lo metti in relazione al personaggio?
CM: Normalmente mi comporto così: arrivo il giorno prima nel luogo della messa in scena e faccio un adattamento sullo spazio. Questo lavoro ha una struttura fatta a punti, molto duttile, che quindi si può adattare ad hoc. È nato a tutti gli effetti nelle periferie, in spazi realmente urbani, ed è in questo tipo di luoghi che l’abbiamo sempre portato. A Bergamo sarà una situazione diversa rispetto alle messe in scena precedenti anche perché si tratta di un contesto formale, cioè un palco.
LD: Quindi ogni spettacolo non è una replica, ma un evento unico, legato a dove avviene…
CM: Già l’uso della parola replica non mi piace: sono dell’idea che ogni volta che si propone un lavoro cambi a seconda del contesto e del momento. Ma la meraviglia di questo tipo di progetti è la profonda trasformazione che subiscono in base al luogo in cui li porto. Nel giro di poco tempo, ho portato “A peso morto” a Roma e in Danimarca: non sembrava nemmeno lo stesso spettacolo. È incredibile quello che accade quando entri in contatto con le persone, con le loro identità… D’altra parte questo sintetizza bene la poetica di C&C Company: il nome si riferisce a “Corpo e Cultura”, il primo lavoro che io e Chiara Taviani facemmo insieme. È qualcosa in cui credo fermamente: quanto la cultura può essere trasformata attraverso i corpi che la esportano e quanto, viceversa, i corpi si trasformano in base alla cultura che rappresentano.
LD: Ci fai qualche esempio di spazi urbani significativi in cui avete messo in scena “A peso morto”?
CM: Una delle ultime repliche che ho fatto è stata a Brescia, in un supermercato… Sicuramente una delle più strane e memorabili. Un altro contesto che mi piace citare è il festival Attraversamenti Multipli di Roma, a cui abbiamo partecipato a settembre 2019, all’interno del progetto europeo Contact Zones. Abbiamo performato di fronte a un centro diurno per anziani. La cosa straordinaria è che in tutta la fase di prova e di esplorazione dello spazio gli anziani del centro mi osservavano e si avvicinavano. Alcuni pensavano fossi uno di loro e interagivano con me. Ho deciso di non togliere la maschera e mantenere con loro il personaggio.
LD: Colpiscono molto le immagini che compone il corpo del personaggio in scena. Per la tua ricerca parti da un’idea o osservi dove ti porta il movimento?
CM: Non credo nella ricerca di movimento fine a sé stessa. In qualunque lavoro devo dire qualcosa. Ho spesso discusso coi miei colleghi su questo tema, sostenendo questa tesi: non siamo più negli anni ’70, quando lo spettatore era disposto a osservare e spiare il lavoro dell’attore o dell’artista dallo spioncino. In qualche modo bisogna creare un linguaggio di comunicazione: più espandi il tuo linguaggio, più riuscirai a comunicare quello che vuoi dire. Per questo è fondamentale creare un vero e proprio alfabeto. Io parto da un’idea da esprimere e mi immergo in una quotidianità di ricerca.
LD: È fondamentale l’obiettivo comunicativo, quindi. Secondo te gli spettatori si riconoscono nelle miserie e nelle bellezze che incarni?
CM: Deve assolutamente essere così. Io cerco sempre di arrivare a far capire una storia: che in scena ci sia Lui, Lei o L’Altro, lo spettatore ci si deve ritrovare o trovare in ciò che vede una verità del proprio essere. “A peso morto” mette in scena l’abbandono, il crollo. Quando siamo stati invitati a portarlo al Festival Danza Estate proprio a Bergamo ho accettato con grandissimo piacere: penso che sia un’occasione molto particolare, in una città così colpita da una situazione globale estremamente difficile. Penso quindi che porterò in scena una versione più delicata e addolcita, per così dire. L’arte performativa deve essere presente e viva, altrimenti diventa qualcosa di già detto e fatto, totalmente artificioso; o semplicemente di cristallizzato, che somiglia alla televisione o al cinema.
LD: Il corpo si può pensare come lo strumento più universale che un artista ha e che usa per parlare di cura, violenza, abbandono… Nel lungo lavoro di ricerca sul movimento ti sembra di trovare delle risposte o vuoi porre delle domande?
CM: Penso che il compito del teatro, e dell’arte in generale, sia quello di porre delle domande. Sicuramente la ricerca artistica è qualcosa che influisce su di me, in quanto produttore di arte, e quel momento è assolutamente essenziale. Mi apre a delle riflessioni autentiche: d’altra parte, se fossero fasulle non potrei mai portare lo spettatore a guardarle. Ma in ogni caso l’obiettivo è far riflettere, come conseguenza dell’esperienza artistica.