Sono mesi avari di gioie e soddisfazioni per tutti noi amanti del basket e di tutti gli sport di squadra. Nel periodo dell’anno in cui normalmente si starebbero disputando i playoffs della NBA, la lega americana è ferma per cause di forza maggiore, così come tutti gli altri campionati.
Eppure, anche in questi tempi di astinenza forzata e dolorosa, il mondo cestistico – e non solo – ha potuto raccogliersi in occasione di un evento a suo modo epocale (quasi) quanto una finale NBA particolarmente epica e combattuta: il documentario ESPN “The Last Dance”, distribuito da Netflix, ha rappresentato una sorta di rito collettivo a distanza. Un’occasione di discussioni spesso molto costruttive e accese, nel ripercorrere le stagioni di quei Chicago Bulls che nel corso degli anni ’90 hanno cambiato per sempre il volto dello sport professionistico americano e la percezione della pallacanestro su scala globale. La visione dei due episodi ogni lunedì è stato qualcosa di molto simile allo sviluppo di serie TV come “Game of Thrones”, con annesso corollario settimanale di spasmodiche attese, dibattiti, speculazioni, ricordi e scoperte.
Il racconto di quella Chicago ha saputo coinvolgere tanto gli appassionati quanto i neofiti, portando i primi in una nostalgica passeggiata sul viale dei ricordi e avvicinando i secondi al basket quanto forse nessun altro prodotto pop era riuscito a fare in precedenza (forse con la sola eccezione di “Space Jam”, il cui protagonista – guarda caso – è lo stesso). Già prima che la programmazione fosse giunta al termine, “The Last Dance” ha superato “La Casa di Carta” ed è diventata la serie più vista di sempre su Netflix.
Merito anzitutto di una parabola sportiva che nasce cinematografica ante litteram. Un paragone già messo sul tavolo proprio dallo stesso Phil Jackson, magnifico direttore d’orchestra di una cast ricchissimo, composto da una sfilza di personalità larger than life, ciascuna con il suo portato di imprescindibili contributi ed enormi difetti.
L’essenziale trasversalità di Scottie Pippen, l’esuberante follia di Dennis Rodman, la provvidenziale puntualità di John Paxson e Steve Kerr, il fondamentale contributo di terze stelle a tutti gli effetti quali Toni Kukoc e Horace Grant. Ma anche l’imprescindibile lavoro sporco di gregari come Luc Longley, Bill Wennigton e Bill Cartwright. E anche due antagonisti: la stampa con le sue speculazioni, a lanciare continuamente sassolini negli ingranaggi di una macchina altrimenti pericolosamente vicina alla perfezione, e Jerry Krause. Un general manager con il grande merito di aver assemblato e reso possibile tutto questo, e la colpa (?) di aver smantellato il giochino nel momento di suo massimo splendore.
Tutte tessere di un mosaico che visto ora, da lontano, assume una volta di più le stimmate di un capolavoro senza tempo. Forse la squadra migliore di sempre, senza dubbio tra le più vincenti, amate e odiate di ogni tempo e di ogni sport.
Su tutto questo si staglia ovviamente lui, il più grande di tutti: Michael Jordan. Imbolsito dagli anni e con gli occhi arrossati e ingialliti dai troppi sigari e dal troppo alcol, ma con la divina arroganza e la patologica competitività di sempre. Il 23 è di fatto la voce narrante e il protagonista indiscusso di tutta la serie, e non sarebbe potuto essere altrimenti.
Così, nonostante le dovute deviazioni, “The Last Dance” è soprattutto la storia di MJ, delle sue umane debolezze e della sua inumana fame di vittorie. Quell’approccio sul campo ha consegnato al mondo sportivo una narrazione pronta da spendere per forgiare una nuova generazione di campioni (Kobe Bryant su tutti), ponendo le basi per il brand NBA che vediamo oggi.
Perché prima di ogni altra cosa Jordan è stato un prodotto pop, il più vendibile ed esportabile di tutti. E in questo senso la serie è efficace nel ripercorrere i passi anche di quella scalata lontana dal parquet: dagli spot vintage della Converse con protagonisti Bird e Magic fino all’impero mondiale Air Jordan, passando per Spike Lee e il «be like Mike». La NBA ha cambiato passo quando ha capito che il basket si poteva vendere, e Jordan è stato il ponte perfetto.
Eppure, anche nel suo ovvio costruirsi intorno al perno MJ, la serie ha il coraggio (a volte parziale, ma ce l’ha) di non risolversi nella mera agiografia. Così a fianco dei trionfi sul campo da gioco vengono illuminate anche le ingombranti ombre di Jordan; un personaggio per cui raramente il cliché della necessaria separazione uomo-artista è stato più calzante.
Messo impietosamente davanti ai propri errori – il bullismo verso Krause e (inizialmente) Kukoc, la presunta ludopatia, il latente ostracismo olimpico ad Isaiah Thomas, l’inammissibile e opportunistica ignavia politica nel momento del bisogno – mai una volta Jordan ha saputo fare un passo indietro e riconoscere i propri sbagli e abbagli. Nemmeno più di vent’anni dopo, senza più nulla da dimostrare e nessuno da convincere, è riuscito a fare un passo di lato per smarcarsi dall’infinito cono d’ombra del proprio ego.
Michael Jordan è stato “solo” il più grande giocatore di basket mai esistito, o per lo meno il primo ad essere così grande, e nulla di più. La statura umana (vera o solo esibita, non fa differenza) di altri campioni – da Kareem a LeBron James, con il suo programmatico #MoreThanAnAthlete – rimane per Jordan un territorio inesplorato.
E nel rendere questo la serie è perfettamente funzionale: a visione conclusa è veramente difficile non detestare MJ sul piano umano così come è impossibile non ammirarlo sul piano sportivo. Ed è giusto così.
In questo senso, uno dei meriti principali di “The Last Dance” è restituire un racconto del fenomeno MJ teso a celebrarne le gesta senza dimenticarne le miserie, pur filtrandole.
In tutto questo, l’agnello sacrificale è stata la completezza collettiva: il resto dei Bulls, di quello splendido mosaico che dicevamo, resta troppo spesso sullo sfondo, assecondando un’inevitabile narrazione eccessivamente Jordan-centrica. Per dire, a uno come BJ Armstrong, perno importante nei Bulls del primo 3-peat, viene concesso un po’ di spazio solamente quando (tra le fila degli Hornets) deve interpretare il ruolo dell’antagonista: l’ennesimo sprovveduto che si è permesso di sfidare Sua Altezza Aerea e che verrà opportunamente castigato nell’incontro successivo, come da immutabile copione.
C’è insomma tanta telenovela e poca pallacanestro, nel senso che al di là di tutte le dinamiche personali tra Jordan e il resto (di Chicago e del mondo) a conti fatti si parla veramente poco di come effettivamente giocassero, quei Bulls. Chi si aspettava qualche chicca sull’attacco a triangolo di Tex Winter e un po’ di perle zen di Jackson, qualche disamina su come Pippen abbia sostanzialmente inventato il ruolo di point-forward, o magari un’analisi del rivoluzionario gioco di Rodman che vada oltre un semplice “era un animale a prendere i rimbalzi”, potrebbe essere rimasto deluso.
Questa è una scelta deliberata che potrebbe in realtà rappresentare anche un merito: decidendo di non scendere troppo nel tecnico, la narrazione non perde mai di respiro. Evitando momenti da clinic di pallacanestro più approfonditi, si mantiene viva l’attenzione di chi magari si è affacciato al basket proprio con questa serie. Un’opzione controbilanciata dallo sviluppo non lineare dell’intreccio rispetto alla fabula: nei suoi continui avanti-e-indietro tra presente narrativo (la stagione del ’98) e flashback, riuscire a raccapezzarsi non è sempre scontato per chi non padroneggia discretamente l’epopea di quei Bulls.
Eppure, nonostante tutte queste riserve, una cosa resta innegabile: che si conosca a memoria o meno l’esito di quell’ultimo ballo, che si ami o si odi Jordan, che si sia allenatori con esperienza ultraventennale nella pallacanestro oppure totalmente vergini cestisticamente parlando, è impossibile non rimanere incollati allo schermo.
Esaltandosi a ogni tuffo di Rodman, e togliendosi il cappello nel vedere la grandezza di Karl Malone che, dopo un’altra finale persa, sale sul pullman dei Bulls per stringere la mano a tutti gli avversari. Chiedendosi se quel primo “The Shot” contro Cleveland entrerà nuovamente, se Scottie riuscirà a rientrare in campo con la schiena rotta e se Bryon Russell cadrà un’altra volta a quel cambio di mano.
Sono immagini e momenti scolpiti nella Storia, che qualsiasi appassionato di basket non si stancherà mai di rivedere, ogni volta come se fosse la prima. E che al tempo stesso trasudano una potenza capace di stregare anche chi non ha mai visto una partita di pallacanestro in vita sua.
È la forza di Jordan, ed è la forza del basket. Che spesso, come questa serie ci ha ricordato una volta di più, tendono a essere la stessa identica cosa.