Inizia oggi, con questo articolo su “Squid Game”, la rubrica #coseserie dedicata alle serie tv e a cosa se ne può trarre al di là dell’entertainment.
A Sanremo 2000, Lorenzo Cherubini in arte Jovanotti portò un brano inedito, “Cancella il debito”, che diede una smossa, quantomeno in Italia, alla questione della cancellazione del debito ai paesi di quello che allora veniva definito “Terzo Mondo” (definizione oggi non più di moda, vittima come tante altre del perbenismo dei nostri tempi). Con lui Carlinhos Brown, uno dei maggiori musicisti brasiliani viventi, grande percussionista che per l’occasione dirigeva un ensemble di percussioni parecchio energetico. Jova rappava un appello a Massimo D’Alema (allora primo ministro) e a Giovanni Paolo II concludendo un po’ ingenuamente “se si muovono i politici poi seguiranno i banchieri / se lei cancella il debito noi ne saremo fieri / dimostri a tutti che le cose si possono cambiare / io la saluto e la ringrazio e torno a ballare/ cancella il debito”.
La performance, che sbiancò Fabio Fazio conduttore di quell’edizione, destò parecchie polemiche in Italia per i soliti 15 giorni canonici fra chi diceva bravo Jova e chi scuoteva la testa – lui, il Cherubini, aveva probabilmente letto Marx e ci era rimasto sotto, come disse allora qualche critico, ma ne era venuto fuori con un gran bel disco, “L’Albero” (1997), seguito due anni dopo da “Capo Horn”, anche quello non male, e da “Il quinto mondo” (2002), che con la canzone “Salvami” provava a rispondere agli strali di Oriana Fallaci post-11 settembre, una debacle.
Perché racconto tutto questo? Perché l’operazione “Cancella il debito”, artisticamente discutibile ma in buona fede, portò all’attenzione delle masse il tema del debito. Lo stesso che racconta “Squid Game”, la serie tv coreana su Netflix che, oltre alle polemiche sui bambini che la guardano e la imitano (link qui), traccia un ritratto feroce e impietoso sulla società sudcoreana, soffocata dalla crisi del debito che riguarda soprattutto la classe media.
Il livello di debito privato in Sud Corea è dell’89,2% del PIL (per intenderci, il debito privato dell’Italia prima del covid-19 era del 41% del PIL, il più basso dell’UE, come spiegava Il Sole 24 Ore). Ciò significa che a livello socio-economico la società coreana è un inferno, in cui la competitività è altissima e il rischio di finire in povertà altrettanto – per farla breve: un distillato di liberismo all’ennesima potenza. “Squid Game” racconta proprio questo inferno con un’allegoria in forma di fiaba nera che raduna 456 indebitati e li mette alla prova attraverso un percorso di 6 giochi ad eliminazione fisica. Insomma, chi perde non va a casa, viene ucciso all’istante. E chi vince, uno solo, si accaparra il montepremi finale, che cresce ad ogni omicidio (100 milioni di won a persona) e arriva alla cifra di 45,6 miliardi di won (circa 33.514.713 di euro al cambio odierno). Montepremi contenuto in un grosso salvadanaio trasparente a forma di maiale, sospeso come una sorta di vitello d’oro nella stanza dove i giocatori alloggiano.
Per dirla in altro modo, “Squid Game” è un intreccio strano e perturbante fra Giochi senza frontiere, il monopolio della violenza di “Salò o le 120 giornate di Sodoma” di Pasolini, “The Truman Show”, il nazismo e altri riferimenti che si intuiscono facilmente dalla visione dell’opera. Che lo sceneggiatore e regista Hwang Dong-hyuk ha immaginato colorata, surreale, sadica e intrisa di coreanità. Fra i tanti riferimenti alla cultura del paese (i Dalgona, biscotti al caramello che i bambini amano leccare, il “gioco del calamaro” del titolo, la trappola delddakji con cui i concorrenti vengono attirati nello “Squid Game”) e la più volte citata parentela con “Parasite” del Premio Oscar Bong Joon-ho (ma in qualche modo anche con il distopico “Snowpiercer”) “Squid Game” è un altro tentativo riuscito di raccontare l’amoralità del capitalismo a Seoul e dintorni.
Tuttavia l’opera dice molto anche dell’Occidente fuori dalla Corea del Sud. Rappresenta, per dirla alla Agamben, uno “Stato di eccezione” dove la legge viene sospesa, il debito è una colpa da espiare fino alla morte e il denaro è una religione laica che in quanto tale racchiude una serie di valori estremizzati, ma neanche poi tanto, che sono poi quelli del nostro tempo: individualismo, competitività, successo, affermazione di sé – è proprio il caso di dirlo – ad ogni costo.
Il risultato è una storia piuttosto prevedibile nell’esito finale. Dopo il primo episodio (spoiler) s’intuisce che a vincere sarà l’ultimo, l’anti eroe Seong Gi-hun, numero 456, contro l’amichevole ma cinico Cho Sang-woo. E si comprende da subito che i personaggi sono figure abbastanza piatte, ingranaggi di un meccanismo appunto allegorico: gli aguzzini mascherati dello Squid Game e il loro Front Man, i Vip che assistono allo stillicidio bardati come animali dorati a rappresentare una misteriosa élite (i cosiddetti poteri forti?), la nordcoreana Kang Sae-byeok sempre triste – perché i nord coreani sono per antonomasia sempre tristi – il gangster Jang Deok-su, che deve parecchi soldi a dei croupier filippini che gli danno la caccia, e così via. Dunque l’aspetto fondamentale di “Squid Game” non è tanto la trama, ma l’orizzonte di senso che scaturisce dalla miniaturizzazione orrorifica della nostra realtà. In una gamificationche viene trasferita dal lavoro e dal marketing al debito-vita, come lo definirebbe l’antropologo Pier Giorgio Solinas.
Una regola dello “Squid Game” (altro spoiler) prevede una votazione democratica da parte di tutti i partecipanti che permette di scegliere se continuare il gioco o andarsene. La maggioranza sceglie di andarsene e torna alla vita di tutti i giorni dove il debito è sempre lì ad aspettarli. Ognuno però ha il suo motivo per tornare e difatti torna, perché dal debito colpa della vita non si sfugge. E alla fine non rimane altro che provare cancellare il debito battendo tutti e vincendo il premio milionario. Oppure morire con una mitragliata senza tanti complimenti.