Durante l’ennesima domenica passata ad annoiarmi a causa del lockdown mi sono detta: “Perché non guardare una serie che parla di un marito depresso perché la moglie è morta di cancro?”
Ricky Gervais ha il talento naturale della satira. Non dipinge la verità adeguandola al palcoscenico ma la presenta condendola con una brutalità che sembra perennemente eccessiva e fuori luogo. Ed è proprio per questa sua inequivocabilità che ci impone di guardarci dentro, perché la satira svela e la morte, in quanto tabù, è uno dei suoi obiettivi preferiti.
In “After Life” Gervais interpreta Tony, un uomo vedovo, disilluso e sconsolato, che lavora alla Tambury Gazette, “un quotidiano locale gratuito che non interessa a nessuno”. Tony pensa continuamente alla morte e l’unica cosa che lo distoglie dal costante pensiero di togliersi la vita sono il suo cane e i filmati che la moglie gli ha lasciato prima di morire.
Per questo passa le sue giornate a deridere e a insultare i suoi colleghi e accoglie Sandy, la nuova arrivata in redazione, dicendole che l’umanità è una piaga e che tutti avremmo il dovere morale di ucciderci.
Si tratta di un registro linguistico che ha un forte impatto sullo spettatore, messo di fronte ad un eroe che può essere cattivo quanto gli pare perché tanto non ha più niente da perdere. E quando si sarà stancato potrà sempre utilizzare il suo speciale superpotere: il suicidio. Non fa altro che ripeterlo, in modo quasi estenuante: agli amici, al suo psicologo, perfino al comico del cabaret a cui lo costringe ad andare suo cognato per cercare di tirarlo su di morale. Nel fare questo però Tony compie un’azione importante, ovvero rende pubblica la morte, la toglie dal suo personale privato, la fa diventare una questione collettiva (i colleghi lo devono sopportare, lui sta apertamente soffrendo).
“After life” è una serie lenta (gli episodi non durano mai più di 25-30 minuti), senza colpi di scena o amori struggenti, che ridicolizza la monotonia della vita di provincia inglese e va ben oltre la sua appartenenza al black humor per mostrarci l’inconsistenza e l’ipocrisia del linguaggio della morte.
Tony deve “andare avanti”, “rifarsi una vita”, conoscere altre donne, “essere felice”. Ma cosa significa essere felici quando un male incurabile uccide lentamente quell’amore che si incastrava perfettamente nelle tue imperfezioni senza chiederti di essere migliore?
Rifare significa fare meglio? Ricominciare da zero? Accantonare il passato e i ricordi? E la morte che fine fa? Semplicemente non se ne parla, è stata rimossa dal discorso pubblico, relegata ad un evento privato che privato non è. E allora non si muore, si scompare, si passa oltre.
È forse quest’idea di passaggio che spesso ci priva della possibilità di manifestare la sofferenza per l’assenza terrena, imponendoci di continuare, di rialzarci, subito. Lasciando che il trauma della fine di chi amiamo si sedimenti, magari per trasformarsi poi in disagio psichico. Come se il dolore per la morte di qualcuno fosse anche solo lontanamente paragonabile a quello di una banale caduta.
Ricky Gervais è un ateo convinto, ma è anche una persona profondamente inquieta, che non si sarebbe imbarcata in una scrittura satirica così scorretta se non fosse anche lui in cerca di qualcosa, forse semplicemente di un significato. Per questo ad un certo punto non risparmia neanche la religione e in un dialogo fra Tony e la collega Kath afferma che non credere in un’entità metafisica non vuol dire non credere in niente – forse sottendendo una possibilità di devozione laica nella fiducia e nell’amore per gli altri.
Non stupisce quindi che il focus della serie non sia solo il protagonismo di Tony. Sono infatti i personaggi secondari, grotteschi e spesso marginali, che lo infastidiscono al punto da istigargli un nuovo senso di responsabilità nei confronti della vita.
C’è il suo amico Lenny che passa tutto il giorno a mangiare. C’è Matt, direttore della Tambury Gazette e cognato di Tony, che dorme in ufficio perché sua moglie è stanca della sua mediocrità. C’è Kath che nella sua stravaganza nasconde il bisogno genuino di qualcuno che si accorga di lei. C’è Daphne, la prostituta (“professionista del sesso”), che gli mette in ordine la casa. E c’è l’invadente postino senzatetto che legge le sue cartoline e approfitta del suo bagno per lavarsi – senza dimenticare lo psichiatra frequentato dal protagonista, che forse avrebbe a sua volta bisogno di uno psichiatra.
Ma altre due figure femminili si rivelano cruciali all’interno della narrazione: Annie ed Emma. La prima è l’incarnazione della dolcezza, una figura carica di empatia che con il volto di una madre o di una nonna ha sempre qualcosa di giusto da dire, l’unica che sembra riuscire a intravedere la sua anima lacerata.
Annie è invece l’infermiera che si prende cura di suo padre. La personificazione di quel “dopo” a cui Tony non sa dare la giusta attenzione. E del resto come potrebbe se c’è un “prima” che, pur nella sua evanescenza, rimane imprigionato nei pixel del computer, conferendo ad ogni risata il retrogusto amaro di ciò che era la vita prima e di quello che avrebbe potuto essere. “In fondo è questo tutto quello che siamo: ricordi.”
La morte non è solamente la cessazione delle funzioni biologiche dell’individuo, è un fatto sociale, “un modo di sentire esterno all’individuo, appartenente alla comunità, che costituisce comunque un punto di riferimento ineludibile per l’individuo, che su di esso modella la propria identità”, come scrisse Émile Durkheim.
La morte è un fatto nella misura in cui possiamo solo prendere atto della sua inevitabilità, ma è proprio in virtù di ciò che le comunità di ogni tempo hanno sviluppato pratiche e rituali in grado di sopperire all’assenza fisica, restituendone un senso. “Sto impazzendo…” dice Annie mentre si rivolge alla tomba di suo marito. “È pazzia solo se rispondono!” replica Tony che aveva assistito involontariamente al “dialogo”.
“After life” ripercorre le fasi del lutto. Dal rifiuto dei primi giorni, alla rabbia riversata sulle persone che stanno intorno al protagonista, ai tentativi di reagire uscendo con altre donne, allo sconforto che si ripresenta nella seconda stagione per arrivare ad una accettazione che si concretizza nel bisogno di restituire il bene ricevuto.
Ecco perché nelle due stagioni fino ad ora rilasciate (ma ne arriverà una terza) non si può fare a meno di ridere e piangere. Per l’assurdità delle storie che Tony deve suo malgrado documentare (dal bambino che somiglia a Hitler, al padre di famiglia che crede di essere una bambina di otto anni). Per il modo in cui rimane impassibile mentre annienta verbalmente chiunque incroci il suo cammino. Per la durezza esistenziale che l’impatto della fine ha su ognuno di noi: un accadimento che occupa gli spazi, il tempo, i pensieri, le emozioni, il significato del nostro stare al mondo.
In “After life” si piange perché la vita esige molto di più che “andare avanti”. Esige che ce ne andiamo in giro portandoci dietro (e dentro) un bagaglio di memorie che grazie alla tecnologia ritornano a portata di mano. Riproduzioni più fedeli di quanto sarebbe in grado di fare la nostra mente che non vuole essere beffarda, ma vuole proteggersi e proteggerci come può.
Dunque “After life” non è un racconto fatto di commiserazione che ci dice quanto sia facile lasciarsi andare. È una storia che afferma il nostro sacrosanto diritto di essere tristi e arrabbiati, di schernire l’idea di una felicità da esibire a tutti i costi.
Perché a volte per consolarsi non basta pensare a cosa ci sia dopo la morte. La vita esige vita e pretende che si guardi alla sua antagonista senza coprirla con veli di finta pietà e pudore forzato che non ci fanno stare meglio. Dopo la morte ci saranno l’inferno e il paradiso, Dio o nulla. Ma intanto dobbiamo riprenderci la libertà di dire che la dolorosa impotenza di fronte a qualcuno che muore è terribile. E non dovremmo provare nessuna vergogna ad ammetterlo.