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#coseserie: Stranger Things 4 apre le finestre dell’orrore in un’epoca che ci manca davvero molto

Articolo. La quarta stagione della serie Netflix più popolare diventa un film horror lungo nove episodi, si lascia indietro la dimensione da teen drama e strizza l’occhio a un pubblico più adulto. Citando «Nightmare» invece di «E.T.», accentuando nella narrazione un valore contemporaneo come l’inclusività e a volte impantanandosi nel procedere della storia. Ma nel complesso la creatura dei fratelli Duffer fa centro un’altra volta

Lettura 4 min.

Ripetitiva e prevedibile. Eppure (o forse proprio per questo) incredibilmente affascinante. Si potrebbe sintetizzare così il giudizio su «Stranger Things». La serie Netflix più Netflix di tutte, la più popolare fra quelle prodotte dalla piattaforma streaming e sin da subito diventata un cult.

Questa quarta stagione – di cui sono usciti i primi sette episodi il 27 maggio scorso, mentre gli ultimi due, ancora in fase di post produzione, saranno rilasciati il 1º di luglio – in termini di racconto è esattamente come uno se l’aspetta. Stessi protagonisti, antagonisti e situazioni narrative – più ovviamente qualche novità – e stesse minacce incombenti: con il Sottosopra che insidia la vita placida e tranquilla (si fa per dire) della cittadina di Hawkins e gli esperimenti governativi top secret che tentano di usare i fenomeni soprannaturali come armi da impiegare nella Guerra fredda. Tutto intorno, come sempre, gli anni Ottanta. Quelli in cui i fratelli Duffer, creatori della serie, sono nati e quelli a cui cinema e tv di oggi non smettono di tornare, ispirarsi e riferirsi.

Ma se tutto è già scritto, già visto, già sperimentato ciò che fa di «ST4» uno dei prodotti televisivi più popolari dell’annata sono proprio le continue incursioni dentro l’immaginario mitologizzato degli anni Ottanta. Un luogo in cui il citazionismo frenetico degli autori pesca a piene mani: utilizzando il decennio del “riflusso” come un infinito contenitore di storie, ricordi e archetipi culturali Duffer e compagni fanno della serie un vero e proprio mall dell’immaginario. E in questo senso l’idea di svoltare in maniera netta verso l’horror – vero elemento di novità della stagione 4 – non è solo una scelta azzeccatissima in termini di riferimenti, ma consente anche un decisivo (e auspicato) rinnovamento dal punto di vista narrativo. Forse per mancanza di alternative – visto che i testi da citare, dopo tre stagioni e venticinque episodi, stanno diventando sempre meno – eppure funzionale a traslare lo stile della serie verso una dimensione più adulta.

Molti fan subito dopo l’uscita dei primi trailer alcuni mesi fa, avevano segnalato sui social come alcuni dei protagonisti apparissero troppo cresciuti per essere credibili come 14-15enni – dato che a causa dei ritardi dovuti in larga parte alla pandemia sono passati già sei anni dalla prima stagione ma soltanto tre nella finzione drammaturgica e gli ormai ex ragazzini oggi hanno tutti fra i 18 e i 20 anni – e la cosa fosse un po’ un pasticcio. Tuttavia gli autori hanno sfruttato al meglio questo inconveniente creando uno show che spinge forte sul tasto dell’orrore e risulta più incline ai gusti di un pubblico adulto.

Lo stile da Amblin Movies che caratterizzava le prime stagioni – e dove i riferimenti principali erano tutti a opere filmiche e letterarie tipicamente dedicate all’adolescenza – lascia spazio quindi a un coté horror decisamente più spinto. Opere di culto come «E.T. l’extra-terrestre», «I Goonies», «Ghostbusters – Acchiappafantasmi» o «Stand By Me – Ricordo di un’estate» non rappresentano più l’ispirazione principale e al loro posto troviamo echi di film altrettanto venerati come «Halloween – La notte delle streghe», «Amityville Horror» o «Nightmare – Dal profondo della notte» (non a caso nel quarto episodio c’è un significativo cameo di Robert Englund, l’attore che ha impersonato Freddy Krueger in tutti i capitoli della saga) ma anche ai romanzi – e i relativi adattamenti cinematografici – di Stephen King più spaventosi come «Carrie» e «Shining». E non mancano, a livello di citazione, incursioni nel decennio successivo con espliciti riferimenti al cinema di Tarantino – soprattutto nel segmento narrativo californiano – e a quello che è il thriller per eccellenza degli anni Novanta, l’opera che ha rivoluzionato il genere e nonostante non abbia davvero nulla che possa legarsi all’immaginario da romanzo di formazione tipico delle vecchie stagioni di «Stranger Things», viene citato esplicitamente: «Il silenzio degli innocenti».

Insomma in un universo così variegato il risultato non può che essere una stagione estremamente espansa. Sia per le linee narrative che a causa delle diverse trame nate nel corso del tempo si sono frastagliate in almeno cinque diverse direzioni, sia per la durata che è arrivata in media a 75-80 minuti per episodio fino agli oltre 90 del capitolo 7. Mentre le ultime due puntate avranno una durata totale superiore alle 4 ore.

Praticamente una stagione fatta di 9 film, nella quale come è ovvio si accumulano tantissima trama, un’infinità di situazioni e personaggi a non finire. Tenere le fila del discorso non è semplice e bisogna dire che i Duffer spesso si perdono nelle ripetizioni e nei paludamenti di una storia che per quanto intricata dal punto di vista del racconto non è poi tanto complessa da giustificare durate così esagerate. Mentre talvolta eccedono in schematismi e superficialità: per esempio nella parte ambientata in URSS dove i sovietici non vengono rappresentati solo come dei semplici cattivi, ma sono pure stupidi, corrotti, sanguinari, traditori e con abitudini e gusti primitivi. Un immaginario che a quasi 40 anni dalla fine della Guerra fredda si credeva superato – specialmente se si parla di una serie che lavora spesso in termini retrospettivi e critici sugli anni Ottanta provando a problematizzarne la memoria – e che invece sembra intriso della più elementare retorica reaganiana.

Ma del resto il meglio «Stranger Things» 4 lo dà certamente nelle prime due puntate, quando gli autori costruiscono un racconto di genere tradizionale, che lentamente cresce nella suspense e nella tensione fino a raggiungere momenti autenticamente horror. Da salti sulla poltrona o da guardare con le mani davanti agli occhi.

Il tutto è condito come al solito da discorsi profondamente contemporanei. Gli anni Ottanta sono infatti utilizzati per parlare del mondo di oggi, delle paure e delle incertezze della crescita, del diventare adulti e dei piccoli e grandi mostri che ognuno di noi, a ogni età della vita, si trova ad affrontare. La quarta stagione è anche perfettamente aggiornata ai temi dell’inclusività e gli autori mostrano il loro affetto per tutti i diversi tipi di emarginati che raccontano. Aggiungendo e rendendo più complessi i rapporti fra i nerd – non solo Dustin, Lucas e Erica, ma anche il metallaro Eddie e lo strafattone Argyle, oltre a Undici che nella nuova scuola viene fatta oggetto di bullismo – e il mondo che li circonda, mostrando però che le debolezze e le insicurezze sono parte della vita di tutti e in fondo va bene anche imparare a conviverci.

Del resto il grande pregio di «Stranger Things», sin dalla prima stagione, è quello di essere riuscita a coinvolgere almeno tre differenti generazioni di pubblico, creando un prodotto nel quale si identificasse non solo chi conosce a menadito (perché l’ha vissuto) l’immaginario di riferimento – e quindi i 40-50enni di oggi – ma anche chi durante gli anni Ottanta non era ancora nato e conosce questo decennio come uno spazio mitologico costituito solo dei prodotti culturali a esso associati.

Una fortuna quindi che è difficile spiegare fino in fondo. E che, come dimostra il duraturo successo della serie, va oltre il puro gusto ludico per la citazione e rappresenta un paradigma talmente forte e storicizzato da essere profondamente radicato nella nostra memoria collettiva. E rende la cultura sottile degli Eighties un sistema identitario unico, universale e riconoscibile come nessun altro prima – e soprattutto dopo. Perché con gli anni Ottanta magari non è finita la Storia, come ha scritto qualcuno, ma è finito sicuramente un modo di pensare, di vivere e di essere. Qualcosa che a quanto pare ci manca davvero molto.

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