Ho sempre adorato la psicologia. Fin da quando ero al liceo, il mio sogno era approfondire questo tipo di studi, perché volevo assecondare un’indole naturale. Comprendere gli altri, decifrarli, leggere il linguaggio del corpo e riuscire a entrare in sintonia con il vissuto, la storia e i turbamenti di chi mi sta di fronte, era e per certi versi è ancora il mio sogno. Un proposito che tutto sommato sono riuscita a realizzare, studiando sociologia e comunicazione all’università. Anche se poi c’era tutto il resto.
Tutto il resto del mio mondo interiore che preme per trovare una via, un senso, una quiete, una fuga, un appagamento, un canale per esprimersi. Spesso, l’esigenza di dar sfogo a questo impulso per certi versi primordiale mi fa immaginare di scorrere la rubrica dei miei contatti nella testa e individuare qualcuno sul quale riversare questo fiume in piena. È lì che mi sorge una consapevolezza: forse dovrei andare dallo psicologo.
Perché vi racconto tutto questo? Perché ho guardato la serie «Shrinking» che ci mostra, giusto per restare in tema di serie tv, «la vita bugiarda degli psicoterapeuti», o meglio, ci mostra che le vite interiori degli psicoterapeuti sono complicate tanto quanto le nostre.
Anche gli psicoterapeuti mentono
Il protagonista di «Shrinking» o, per meglio dire, una delle vite di cui possiamo sbriciare il dietro le quinte, è quella di Jimmy Laird, interpretato da Jason Segel, che sembra essere ancora rimasto fedele al personaggio di «How I Met Your Mother» che lo ha reso famoso. Soprattutto, per il senso di inettitudine col quale affronta la vita e per l’incapacità di mettere a frutto la sua intelligenza emotiva per leggere le situazioni e «tirarsi insieme», come dicono da queste parti. Perché sì, Jimmy è uno psicoterapeuta, ma è anche un uomo distrutto. Sua moglie è morta in un incidente stradale e lui ha deciso di mettere in pausa il dolore.
Nel presente della storia lo troviamo in piscina insieme a due giovani donne delle quali non sa neanche il nome. Ci penserà la sua vicina di casa, Liz, a ricordargli non solo che sono le tre di notte e che dovrebbe smetterla di fare casino, ma anche (e soprattutto) che di sopra ha una figlia adolescente che teoricamente sta dormendo, Alice (Lukita Maxwell).
Alice è una ragazza matura «per la sua età». È così che si dice quando un giovane adulto conosce il dolore troppo presto. Il linguaggio diventa circostanziale, educato, si riempie di silenzi, non detti e sensi di colpa. Nel caso specifico di Jimmy, c’è un motivo ben preciso per cui non riesce a guardare neanche in faccia sua figlia: «Somigli così tanto a tua madre».
C’è un modo giusto per affrontare il dolore?
Quando ho cominciato a guardare questa serie su consiglio di un amico, dalle prime battute mi sembrava la brutta copia della serie «After Life» (di cui ho parlato qui), ma mi sbagliavo di grosso. Il cinismo di Ricky Gervais certo non mi dispiace, ma sono felice di aver guardato «Shrinking», non perché sia una serie leggera, ma perché regala leggerezza, soprattutto per affrontare un tema così delicato quale è la morte. Sicuramente i tempi comici sono quelli tipici della sitcom americana, ma guardare una puntata di mezz’ora, ogni sera dopo una giornata di lavoro, è stato come ricevere la carezza di un amico che ti rassicura che in qualche modo tutto si sistemerà.
Non a caso, va tutto male nella vita di Jimmy. Quando entra nella clinica in cui lavora insieme al suo mentore Paul (interpretato da un brillante Harrison Ford) e alla migliore amica di sua moglie, Gaby (Jessica Williams), deve mettere da parte le sue tragedie e ascoltare quelle dei suoi pazienti: una donna che non riesce a farsi apprezzare dal marito, un giovane reduce di guerra con problemi di gestione della rabbia, un ragazzo che vuole trovare disperatamente l’anima gemella ma non riesce a instaurare legami duraturi perché non ha il coraggio di mostrare la sua fragilità.
Dopo anni di terapia – per così dire, fallimentare – Jimmy decide che è arrivato il momento di affrontare la realtà. Non la sua, ovviamente. Quindi, semplicemente se ne frega di tutti i codici deontologici e delle leggi sulla privacy e sulla riservatezza dei pazienti, che prescrivono di non condividere informazioni personali sui pazienti o imporre loro un certo comportamento o azione. Pensa che la soluzione più adeguata a dare una svolta alle cose sia adottare uno stile decisamente più sperimentale e rischioso: dire in modo schietto e sincero ciò che pensa, infischiandosene della supposta distanza terapeuta-paziente.
Le conseguenze saranno ovviamente tutt’altro che rosee, soprattutto perché questa terapia rivoluzionaria è per lui l’ennesimo palliativo. Ci pensa l’irreprensibile Paul a farglielo notare: è diventato insensibile al dolore ma si è limitato a rimpiazzare l’utilizzo dei farmaci, scegliendo di farsi coinvolgere troppo dai pazienti.
Si può ridere della morte (nonostante la morte)?
Ci sono degli universali culturali che rendono la morte sopportabile per gli esseri umani: l’idea che la vita terrena sia di passaggio, la speranza di un dio in cui credere. Poi, ogni genitore si augura di non sopravvivere ad un figlio e i figli sperano di tardare il più possibile l’ora in cui dire ai propri genitori addio. Sperano di vederli invecchiare, che siano presenti nelle occasioni importanti, che siano sempre lì a darci consiglio e perfino a rimproverarci quando sbagliamo.
La vita, però, ci sorprende e ci mette alla prova, sfida le nostre certezze e tocca a chi resta fare i conti con la realtà. Per Jimmy, dopo un anno passato ad autocommiserarsi è arrivato dunque il momento di chiedere scusa a sua figlia, di tornare a fare il padre, l’amico, il collega.
L’esperimento è ben riuscito perché, andando avanti con le puntate, tutti i personaggi che sembravano espressione di un cliché rivelano una loro complessità. Liz, la vicina impicciona che sbircia continuamente dalla finestra, è stata la donna che si è presa cura di Alice quando Jimmy era incapace di reagire. Paul non è solo un vecchio cinico che si è dedicato al lavoro trascurando sua figlia, ma è un uomo che ha scoperto di avere il Parkinson e deve fare i conti con una malattia degenerativa che lo obbligherà a rivedere la scala delle sue priorità.
Gaby, che se ne va in giro bevendo continuamente acqua da una borraccia per mantenere la sua pelle perfetta, si porta dietro quella che è a tutti gli effetti una tanica, che le serve per trascinare fuori casa, metaforicamente e no, il peso di un matrimonio disastroso, sul quale aleggia la parola «fine».
Guardarsi allo specchio, uscire dal tunnel della depressione, accettare i tremori involontari del proprio corpo, rendersi conto che non puoi salvare l’uomo che hai amato per una vita, affrontare le proprie paure, può mettere in crisi anche gli psicoterapeuti più acclamati. Dunque anche Jimmy, messo di fronte alle sue fragilità, rivela il suo temperamento da “orso abbraccia tutti”, Paul diventa il nonno che mangia caramelle gommose e dispensa consigli ad Alice, di nascosto. Suo padre non deve di certo sapere che anche lui ha un cuore. E Gaby finisce per innamorarsi del marito della sua migliore amica – sì, proprio Jimmy – perché in lui ha trovato finalmente un porto sicuro.
Allo spettatore che guarda non resta che far altro che perdonarli e ridere dei loro disastri. Perdonare un’anima ferita a cui è stato strappato l’amore della sua vita, soprattutto perché non riesce ad accettare che non tutte le storie finiscono necessariamente con un epilogo felice. Perdonare un uomo di settant’anni che dopo il divorzio ha dedicato tutta la sua vita alla carriera e ora si rende conto che sua figlia non ha fatto altro che aspettare che si accorgesse di lei. Ma soprattutto, possiamo smettere di pensare che quando perdiamo qualcuno dobbiamo privarci del diritto di ridere di gusto, e concederci il privilegio di sentire il cuore più leggero.
Come e quando il dolore tornerà a bussare alla porta? Semplice. La terapia d’urto di Paul consiste nel chiudersi in stanza, e piangere per 15 minuti ascoltando «I know the end» di Phoebe Bridges. Parola di psicoterapeuta.
La morale della storia
Si sa da sempre che dietro a una risata si nasconde un dramma. La verità auto-evidente di «Shrinking» è che mentre ci fa ridere ci parla del lutto, della perdita, di famiglie distrutte, di sensi di colpa, di malattie neurodegenerative, ma soprattutto ci fa prendere coscienza di quanto sia la distanza tra gli esseri umani a fare la differenza.
L’impressione finale è quella di essere di fronte a una comunità che fa da specchio alla classe medio-borghese più ampia che troppo spesso si nutre di superficialità e di apparenze, per mostrarci le conseguenze di esistenze prive di sincerità verso noi stessi e gli altri, ben distanti da ciò che erano le nostre ambizioni e speranze, dal futuro che avevamo immaginato, dagli adulti che pensavamo di diventare.
Quando muore qualcuno, attorno a chi resta si radunano due gruppi di persone: gli amici, quelli che ti aiutano a raccogliere i cocci e quelli che rimangono sulla soglia della porta a dirti come dovresti sentirti, come dovresti comportarti e soprattutto che dovresti guardare avanti.
Quando mio padre è morto, mia madre era più giovane di me di due anni. E ancora adesso che di anni ne sono passati 25 da quando non c’è più, ci sono persone che mi parlano di quanto i miei genitori fossero giovani, belli e innamorati. Io sorrido con un certo imbarazzo e cerco di immaginarli, mentre una nuova cicatrice si solca sul cuore e una curva mi si stampa sul volto. Però, dopo tutto questo tempo ho imparato a concedermi i miei 15 minuti di dolore e a ridere in sua assenza e della sua assenza. E non perché col tempo il dolore diminuisce («shrinking» in inglese significa «in diminuzione») ma perché so che questo è il modo giusto per mantenere vivo il suo ricordo e per amarlo, da qui, sperando che sia un po’ fiero di me – almeno per due giorni alla settimana (weekend esclusi).