Molti di coloro che stanno leggendo queste parole probabilmente hanno un rapporto osmotico fra lavoro e vita. Nel senso che il lavoro “invade” la loro vita privata – complici i vari device che prolungano la nostra reperibilità, ben oltre il tempo di lavoro. E la vita privata “viene al lavoro” con le persone, attraverso stati d’animo e ricordi, soprattutto quando l’esistenza si fa difficile per problemi personali o di salute.
È un rapporto incontrovertibile, e anche chi pensa che «finite le otto ore, basta» in realtà mente a sé stesso e non si rende conto che il lavoro c’è sempre , anche solo sotto forma di stanchezza fisica o mentale, oppure con fenomeni tipo il (sempre più diffuso) burnout. E anche quello che si definisce «tempo libero» lo è soltanto perché si ha un lavoro e la definizione giusta dovrebbe essere «tempo libero dal lavoro» – chi è disoccupato infatti non ha un vero e proprio «tempo libero».
Tutto questo si inserisce in quella che il sociologo tedesco Hartmut Rosa e altri come lui hanno definito «accelerazione sociale», cioè «un’accelerazione della velocità della vita, della storia, della cultura, della vita politica o della società o addirittura del tempo in sé», e quindi anche del lavoro (la citazione è tratta da un libro di qualche anno fa, «Accelerazione e alienazione. Per una teoria critica del tempo nella tarda modernità», Einaudi).
Nulla di particolarmente nuovo o non risaputo. In sintesi è la nostra condizione attuale. Quella che il filosofo coreano Byung-Chul Han ha definito «società della stanchezza», e che nasce da un meccanismo come quello descritto fra le pagine di «Nello sciame» (Nottetempo): «L’ozio comincia là dove il lavoro cessa completamente. Il tempo dell’ozio è un altro tempo. L’imperativo neoliberista della prestazione trasforma il tempo in tempo di lavoro, totalizza il tempo di lavoro. La pausa ne è solo una fase. Oggi non abbiamo tempo all’infuori di quello lavorativo. Ce lo portiamo dietro, così, non solo in vacanza, ma anche nel sonno. Per questo dormiamo agitati: i soggetti di prestazione spossati si addormentano come si addormenta una gamba. Poiché serve alla rigenerazione della forza lavoro, anche il riposo non è nient’altro che una modalità del lavoro: il rilassarsi non è l’Altro dal lavoro, ma il suo prodotto». Insomma, osmosi tra «tempo di lavoro» e «tempo libero». Ma, per dirla soffice, tutt’altro che alla pari.
Non possiamo prescindere da queste osservazioni – che andrebbero ampliate, approfondite e ulteriormente problematizzate: ma qui parliamo di serie tv – nell’affrontare «Scissione». La serie televisiva di Apple TV+ approdata sulla piattaforma lo scorso febbraio, creata da Dan Erickson e diretta da Ben Stiller e Aoife McArdle, che ha il pregio di non scorrere innocua come tanti altri prodotti del genere, ma rimane attecchita a chi la guarda come una febriciattola e diffonde un (distopico) pensiero critico sul nostro rapporto fra il lavoro e il «tempo libero». O meglio, fra il lavoro e i ricordi – che con il lavoro hanno un legame molto più stretto di quanto si pensi: la fotografia di un figlio, un pupazzetto regalato dal proprio partner, quella penna comprata in un viaggio a New York. Tutte avvisaglie della nostra «vita libera», ricordi (illusori?) di ciò che siamo oltre il lavoro.
Il what if della serie riguarda la Lumon Industries, un’azienda che si avvale di un’operazione medica a livello neurologico che scinde il vissuto e i ricordi lavorativi dal vissuto e i ricordi fuori dall’azienda. Fra cui quelli del già citato «tempo libero» e di tutto ciò che accade nella vita dei quattro sottoposti alla procedura, a cui è stato impiantato un microchip ad hoc per permettere la disgregazione della memoria e la fine di quell’osmosi con cui abbiamo iniziato tutto il ragionamento. Fra i quattro, il protagonista è Mark (Adam Scott) che nella vita da Interno (così si chiamano i dipendenti sottoposti alla Scissione) si chiama solo Mark, mentre in quella da Esterno fa di cognome Scout, “l’esploratore”, appellativo tutt’altro che casuale. È lui a guidare la squadra di tre persone del reparto Macrodata Refinement (MDR), piano a cui si accede tramite un ascensore che attiva il microchip e cancella momentaneamente i ricordi della vita extra-azienda (non prima però di aver lasciato i propri effetti personali in un armadietto) e li riattiva dopo otto ore di lavoro quando si riprende l’ascensore per scendere e tornare a casa.
I tre della squadra di Mark si chiamano Dylan (Zach Cherry), Irving (uno straordinario John Turturro) e l’ultima arrivata Helly (Britt Lower), in sostituzione di Petey (Yul Vazquez), che non lavora più alla Lumon Industries e per gli ex colleghi è «scomparso», perché non lo vedono più in azienda pur avendo un ricordo di lui che però scompare della vita da Esterni. Il Mark Esterno tuttavia viene contattato da Petey, che gli svela di aver scoperto il sistema per aggirare la Scissione, sottoponendosi alla Reintegrazione e specificando di ricordare tutto, ore di lavoro comprese.
Helen invece subito dopo l’assunzione comincia a dare segni di disagio per la sua condizione di “scissa”: cerca di comunicare con la lei Esterna (ma c’è un sistema che impedisce a qualsiasi tipo di oggetto di uscire dall’azienda), tenta il suicidio e dopo un lavoro di convincimento con le buone e anche con le cattive da parte del supervisore dell’MDR Seth Milchick (Tramell Tillman) e della direttrice della filiale Harmony Cobel (Patricia Arquette), tutti e due non scissi, nonché della bizzarra psicologa aziendale, Helly, si placa. Ma all’orizzonte la attende una sorpresa non da poco.
Qui ci fermiamo nel raccontare la trama – complessa ma avvincente – di una serie tv inusualmente lenta, dai toni e dai colori asettici, in cui spuntano scene (esagero?) hanekiane e i momenti di pausa dal lavoro abbondano. Un lavoro che è quantomeno anomalo, ovvero selezionare i numeri che appaiono sui monitor dei computer dei quattro e rimuovere le cifre che inspiegabilmente generano in loro dei sentimenti negativi. Il tutto fa pensare ovviamente che ci sia sotto qualcosa e che alla Lumon si faccia un test a metà fra l’esperimento scientifico e l’inferno.
La domanda che rimane sospesa lungo tutta la prima stagione – a parte uno scontato Chissà cosa succederà? – è se ci piacerebbe un’esistenza spaccata in due come un’anguria, dove le sofferenze, ma anche le gioie (del lavoro e della vita) rimangono escluse l’un l’altra e almeno per qualche ora al giorno lasceremmo stare ciò che ci fa star male. Non saremmo forse uomini a metà? Ma non lo siamo forse anche oggi, quando il lavoro prende il sopravvento sulle nostre vite e “portiamo” il lavoro a casa, mentre i ricordi diventano un placebo a una vita che forse non fa per noi? E la precarietà così largamente diffusa, dove il lavoro invade ogni cosa, la vita può divenire sopravvivenza e tutto si mescola (stati d’animo, problemi lavorativi e personali, ricordi e aspirazioni) non è forse l’estremizzazione di tutto questo? A ognuno la propria risposta.