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#coseserie: non ho paura di Wanna Marchi in sé, ho paura di Wanna Marchi in me

Articolo. «Wanna», la serie Netflix dedicata alla teleimbonitrice e a sua figlia Stefania Nobile, racconta di due donne spietate, ma ancora più racconta di noi: il “pubblico” che le ha rese ricche e famose. Ecco perché la bella docufiction di Alessandro Garramone è così inquietante

Lettura 5 min.
Wanna Marchi e Stefania Nobile

Trecentomila: questo numero continua a tormentarmi dacché ho finito di vedere la miniserie Netflix dedicata a Wanna Marchi e Stefania Nobile. Un prodotto confezionato benissimo, dai filmati d’archivio alle testimonianze (con il merito di avere scovato il “maestro di vita” Do Nascimento), dalla colonna sonora (la sigla è «Cinque minuti di te» , di Don Antonio & The Grace, con la voce di Daniela Peroni) sino alla ricostruzione di un’Italia anni ‘80 e ‘90 che non c’è più, ma c’è ancora.

Trecentomila, dicevo. Sono i nomi scoperti nel database di Wanna Marchi, persone entrate in contatto con lei per aver comprato chi una crema scioglipancia, chi i numeri del lotto. Lo scrivo in cifre: 300.000, più del doppio degli abitanti di Bergamo, un italiano su 200.

Ed è per questo che la serie su Wanna Marchi non parla solo di lei: parla di noi, di chi l’ha fatta “nascere” e prosperare. Nella totale mancanza di empatia di Wanna Marchi e della figlia, nei loro volti duri e dipinti come pagliacci cattivi, è facile leggere una rappresentazione di pura e semplice malvagità. Due perfide truffatrici dedite al raggiro: lo sono, non sono pentite, e la serie non ha nulla di assolutorio. Ma la loro storia è anche qualcosa di più, racconta cose di noi italiani che preferiremmo ignorare. Ed è questo che fa ancora più paura.

Il denaro e la fama come unica misura di valore

«Io sono WANNA MARCHI! E voi chi siete? Non vi conosco!» urla raggiante la televenditrice. Prima di finire a processo, Wanna Marchi è stata un simbolo di successo, e anche di riscatto sociale, di self-made-woman, da figlia di contadini a miliardaria (in lire).

Non stava solo nelle tv locali, Wanna Marchi. La serie è punteggiata dalle sue ospitate sulle principali emittenti nazionali, fianco a fianco con i più famosi conduttori: Piero Chiambretti, Pippo Baudo, Catherine Spaak, Maurizio Costanzo, Enzo Biagi. Presentata sostanzialmente come una ruspante imbonitrice, come un personaggio pop: messa in piega platino oppure rossa, trucco vistoso, gioielli enormi, voce squillante, presenza dirompente. Che di mestiere Wanna Marchi vendesse il nulla, e che su questo avesse fatto la sua fortuna, si sapeva già molto prima del processo. Ma che importa? Fa audience, fa vendere, tutti la conoscono.

È lo stesso identico meccanismo dei social: essere visti, essere seguiti, essere remunerati. Per merito? Sì, sapere stare sui social (così come sapere fare le televendite) è indubbiamente una capacità. Se poi uno sui social ci sa stare talmente bene da essere pagato e farne una professione ha vinto a prescindere. Chi non apprezza è un hater o un invidioso, oppure uno snob. Quali siano effettivamente i prodotti o i contenuti proposti è secondario. Cosa è cambiato, in fondo, da allora? La misura del successo di una persona è sempre misurata in fatturato e “popolarità”, che siano i followers di adesso o il centralino che «scoppia di telefonate» nel secolo scorso.

L’industria della fortuna

Wanna Marchi era una truffatrice che ha violato la legge. Il sistema del gioco di azzardo di Stato è legale. Secondo gli ultimi dati disponibili nel 2020 sono stati spesi al gioco 88,38 miliardi di euro, e parliamo solo di ciò che rientra nella legalità. Fanno 1.473 euro a testa, neonati compresi. Personalmente non ho dato un euro né al gratta e vinci né al poker online, immagino quindi che per alcuni la spesa pro capite in gioco d’azzardo possa essere considerevolmente più alta di quei mille e quattrocento settantatré euro, che già di per sé valgono uno stipendio.

Ascoltare le povere vittime di Wanna Marchi, che hanno rovinato la loro famiglia andando a svuotare i conti correnti di mariti e figli, è straziante. Ma questo è il rischio cui sono sottoposti ogni giorno i malati di ludopatia e le loro famiglie in Italia. Secondo i dati dell’Osservatorio nazionale sono 1,3 milioni i ludopatici in Italia, con una vera e propria diagnosi accertata di dipendenza patologica. Una patologia paragonabile alle tossicodipendenze “classiche”: ricerca ossessiva della sostanza (in questo caso il gioco), incapacità di smettere, irritabilità e ansia quando il “bisogno” viene negato, tendenza a non riconoscere il problema. Una dipendenza che stravolge gli equilibri della vita familiare, in quanto il giocatore patologico spesso contrae debiti e si espone a rischi che possono ricadere anche su coniugi, figli e genitori. Ricordo che stiamo parlando di gioco legale, e qui non c’è nessun colpevole da mettere in carcere.

La colpevolizzazione delle vittime

Come riporta una telefonista: «Tutte le mattine Wanna Marchi entrava in studio e diceva sempre che ogni giorno per una Wanna Marchi si dovevano svegliare trenta coglioni da truffare». Il dramma è che tendiamo a darle ragione, lo dico vergognandomene. La colpevolizzazione della vittima consiste nel ritenerla responsabile di ciò che le è accaduto. Spesso è proprio la vittima ad auto colpevolizzarsi, come succede sempre nelle storie di truffa. Lo vediamo chiaramente con il processo Wanna Marchi, dove solo una piccola parte dei raggirati scelse di andare in tribunale a fare valere le proprie ragioni.

Dilapidare i risparmi perché «il sale non si scioglie», ricevere minacce sulla salute e il benessere dei figli e pagare, invece di denunciare, ma anche solo comprare una crema “dimagrante” dopo essere state apostrofate come «orrende ciccione». È difficile provare empatia per simili comportamenti, pur sapendo che anche noi potremmo essere vittime di raggiri. Non questi magari, ma altri.

Quante volte regaliamo i nostri dati senza sapere esattamente a chi li stiamo dando? La colpa è nostra, ché siamo ingenui? Quando ho sbagliato a dare la mia password di posta elettronica, ero da ritenere colpevole per le e-mail di truffa inviate dal mio account (per citare episodi molto comuni, e non certo tragici)? Tutto sta nel trovare il punto debole che ciascuno di noi ha, e saperlo sfruttare. Pensare alle vittime come colpevoli fa solo il gioco del truffatore.

Il rapporto simbiotico madre-figlia

Qui entriamo in una sfera più personale, ma quanto è inquietante sentire Stefania Nobile dire: «Non sarò mai altro che la figlia di Wanna Marchi»? Detto in senso positivo – dal suo punto di vista, s’intende. Perché Stefania segue le orme della madre, fa le prime televendite a 15 anni e venera Wanna come un genio. Fanno tutto insieme, si sposano anche lo stesso giorno, in un servizio pagato da Novella 2000. Certo, fanno notizia perché sono una coppia di truffatrici. Ma quanti rapporti simbiotici madre-figlia esistono? Ribellarsi alle madri (o ai padri) è sempre più fuori moda. I figli sono considerati un affare privato, della famiglia, più che una questione di interesse sociale. I figli sono i “mini-me” dei loro genitori.

Nel 1958 un sociologo statunitense in viaggio in Basilicata, Edward C. Banfield, coniò l’espressione «familismo amorale». Si tratta di una concezione estremizzata dei legami familiari, a danno dell’etica collettiva, perché l’unico scopo è «massimizzare i vantaggi materiali di breve termine della propria famiglia nucleare, supponendo che tutti gli altri si comportino allo stesso modo». Wanna Marchi, indifferente a tutto e a tutti, ha gli unici moti di emotività nei confronti della figlia. E lo dice più volte, anche nelle televendite, quanto conti per lei la famiglia. Una visione distorta di un valore collettivo, ampiamente condiviso.

Il fascino della donna (o dell’uomo) forte

L’aggressività paga, l’enorme sicurezza in sé stessi anche. Guardare la Wanna Marchi degli anni Ottanta insultare le casalinghe in sovrappeso: «Fate schifo, lardose!», «Come fate ad andare in giro in quelle condizioni!» è un’esperienza straniante. Forse era magra Wanna Marchi? Forse era bella? A me non sembra, ma ci credeva parecchio. Basta essere convinti per convincere gli altri? Me lo chiedo spesso, non spiegandomi altrimenti il successo di persone di cui non capisco le doti. Il tormentone di Wanna Marchi, «D’ACCORDO??!», sarebbe un perfetto slogan elettorale, forte e vuoto come tutti gli slogan. Ai tempi, nel 1989, divenne un brano musicale, su un’orrida base synth pop.

E cosa si risponde a «D’accordo?» se non «Sì»? Forse è il piacere di farsi guidare, come da un pifferaio magico, il segreto ultimo del successo di Wanna Marchi? Ancora una volta, la risposta non è in lei ma in noi. Però, come diceva un altro genio televisivo, è sbagliata.

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