Tratta da libro «I ragazzi che volevano fare la rivoluzione, 1968-1978: storia di Lotta Continua» di Aldo Cazzullo – pronto a subentrare a Paolo Mieli nel ruolo di asso pigliatutto della divulgazione storica in televisione – è l’ultimo esempio di un gruppo sempre più nutrito di prodotti narrativi, cinematografici e letterari, sugli anni Settanta e i suoi protagonisti. Una tendenza che proprio su queste pagine stiamo cercando di indagare e approfondire.
Evidentemente, gli anni Settanta sono stati un periodo nodale per la nostra Storia. Se il Paese intero fosse il personaggio-protagonista di una storia, troverebbe in quel decennio la traiettoria più incisiva del suo arco narrativo. I conflitti e gli irrisolti che l’hanno caratterizzato gli hanno conferito un potenziale drammaturgico non indifferente, qualcosa che sembra anche adattarsi alle modalità di narrazione e di intrattenimento tipiche della contemporaneità: al loro carattere episodico, testimoniale, multimediale, convergente. Un tempo di movimenti e organizzazione di massa, di grandi folle come unici organismi, del primato degli interessi collettivi su quelli individuali, di costruzioni identitarie in relazione ai principi di un gruppo, un tempo del noi invece che dell’io , con la dimensione pubblica al centro e quella privata ai margini («il personale è politico»).
Eppure, di questo periodo sembra predisporsi sempre più una memoria-mosaico costruita sulle individualità, sulla memorialistica personale, sulle prospettive private di storie singolari e mono-prospettiche. Un tutto che vuole essere somma delle parti. E pare una tendenza delle narrazioni contemporanee, organica anche al nuovo romanzo storico (due esempi, tra gli altri: la pluralità di voci e la forma a episodi dei libri di Scurati , o dell’ultimo romanzo di Andrea Pomella sul sequestro Moro).
A proposito e non a caso, Erri De Luca, tra i protagonisti della serie, ha risposto così durante un’intervista a Concita De Gregorio su La7: «Per trasmettere una storia non basta solo un narratore. Dicono i pellerossa che per raccontare una storia ci vogliono cento persone. Se uno vuol sapere qualcosa di quel tempo deve ascoltare e interessarsi di moltissime voci». Voci anche discordi, specifica. In questa direzione si muove (timidamente) la serie documentaria di Tony Sannucci, coprodotta dalla RAI, pur ricorrendo soprattutto ai soliti noti, che un po’ hanno cannibalizzato l’argomento, nel corso degli anni: Liguori, Mughini, Lerner, lo stesso De Luca. Ci sono anche Marco Boato, Donatella Barazzetti, Vicky Franzinetti e altri protagonisti. Si nota la mancanza di uno storico, qualcuno che faccia da perno contestualizzante: uno spazio vuoto occupato soprattutto dal materiale d’archivio restaurato, che è davvero pregevole.
La centralità dei testimoni, le voci singolari, quindi: un insieme di “soggettive” per raccontare il periodo che ha fatto della dimensione collettiva il suo cuore pulsante. Mi pare molto interessante. Forse non poteva essere altrimenti: un periodo che ha “inventato” la pratica della «presa di parola» in assemblea, in cui si è diffuso uno strumento come la Super8, testimoniale anch’esso, una «presa di parola» per immagini, la controinformazione e il citizen joiurnalism (le chiamate alle radio libere durante le manifestazioni per segnalare abusi e violenze). E ancora, la liberalizzazione dell’etere: stessa apertura al protagonismo individuale in una dimensione collettiva: chiunque può fare la radio, con un gruppetto di amici, due spicci, un’antenna e un giradischi in un sottotetto sgangherato.
Internet e la rivoluzione digitale hanno fatto un po’ la stessa cosa. Chris Anderson l’ha chiamata «democratizzazione dei mezzi di produzione»: non mi serve uno studio di registrazione per realizzare un album (mi basta un pc), non mi serve un fotografo professionale e una rivista patinata per fare la modella (mi basta un profilo Instagram). Siamo tutti testimoni e narratori dentro un’altra dimensione collettiva, quella social, e ogni cosa la possiamo fare da noi perché siamo consumatori ma soprattutto produttori: content creator . E allora quale periodo se non quello che stiamo vivendo sembra porsi come il più performante nel veicolare la memoria di quella stagione? C’è una relazione di dipendenza tra le caratteristiche di un periodo storico, la forma e le modalità di trasmissione della sua memoria? In che modo agiscono, dentro quella relazione, le necessità di intrattenimento?
La serie in questione ha il pregio di raccontare (alcune) delle unicità del gruppo di Lotta Continua: lo spontaneismo, lo sguardo al sociale e non solo al politico, il carattere meno ortodosso rispetto alle altre organizzazioni della sinistra extraparlamentare di allora. Lo fa con onestà e una dose di sentimento che non scade nella retorica o nel reducismo. Certo mancano tante cose che avrebbero meritato di essere raccontate, e che più di altre continuano a parlare al presente: mi riferisco alle specifiche di quel giornalaccio – come lo ha definito Mughini – che è stato «Lotta Continua», bisettimanale dal 1969 e poi quotidiano fino al 1982.
Un giornalaccio che ha però introdotto una serie di elementi linguistici e di comunicazione editoriale molto innovativi. Su tutti, basti un esempio: le strip che reinterpretano i fumetti classici, in cui i testi originali sono cancellati e riscritti. Così Paperino diventa un rivoluzionario coperto di debiti in lotta con il grande capitale (Paperon de Paperoni) e contro il “revisionismo riformista” interpretato da Qui, Quo, Qua nei panni dei sindacalisti e dei burocrati del PCI; oppure Superman, che diventa l’agente dell’imperialismo americano su cui può vincere solo la marxite rossa. E via così, fino al mitico personaggio di Gasparazzo creato da Roberto Zamarin, che mette in scena le lotte, i soprusi e le aspirazioni dell’operaio-massa, meridionale e non specializzato, figura tipica della FIAT di quegli anni. Ma questa è un’altra storia, chissà che non avremo modo di raccontarla. Intanto, godetevi la serie.