Houston, abbiamo un problema. A pochi giorni dalla seconda candidatura agli Oscar di Paolo Sorrentino con “È stata la mano di Dio” dopo quella (vittoriosa) del 2014 con “La grande bellezza” – un grande pregio per lui, meno per il cinema italiano che, Sorrentino a parte, non vince un Oscar per il miglior film straniero dal 1999 (“La vita è bella”) e non piazza un titolo in cinquina dal 2006 (“La bestia nel cuore”) – arriva su Netflix una serie tv, “Fedeltà”, che sembra riassumere buona parte dei problemi della serialità e del cinema italiano.
Non che all’estero non esistiamo (ad esempio vendiamo bene il pur non eccelso “Montalbano” e molti registi italiani superano il confine con le loro opere), ma qualche problema di fondo c’è. Piaccia o meno, Sorrentino sembra essere su un altro pianeta ed è l’unico nome italiano che possiamo proporre alle platee del globo con una certa possibilità di successo (da Oscar o giù di lì, s’intende). Anche quando imbastisce una serie tv sui Young e New Pope Sorrentino è un fuoriclasse, e solo uno come Luca Guadagnino con la bellissima “We Are Who We Are” sembra tenergli testa.
“Fedeltà” in ogni caso ci prova. Ad essere un buon prodotto internazionale, a portare sullo schermo una storia già premiata dai lettori, a coniugare quel tanto di intrattenimento e quel tanto di psicologia (ahinoi, spicciola) che la rendano un titolo credibile, vendibile, addirittura memorabile – vedasi il battage mediatico di Netflix, che dopo la visione dei sei episodi ottiene solo l’effetto di aumentare la delusione.
Tratto dal libro omonimo di Marco Missiroli (Einaudi, Premio Strega Giovani 2019), regia di Andrea Molaioli (“La ragazza del lago”, “Il gioiellino”, “Suburra – la serie”) e Stefano Cipani (“Mio fratello rincorre i dinosauri”), “Fedeltà” racconta la storia di un amore quarantenne che si scioglie nel desiderio: di qualcun altro e di una vita diversa. L’infedeltà a sé stessi e (quindi) agli altri, o il contrario, sembra essere la tesi di fondo. Aggiungetevi se volete un punto di domanda che miri a problematizzare la questione. Ma qui di analisi ce n’è poca, prevedibilità al contrario tanta.
Tema non nuovo, quello del tradimento, risulta interessante poiché tira in ballo certe dinamiche del nostro tempo: l’individualismo, la “Libertà obbligatoria” di Gaber, la liquidità dove tutto è possibile di Bauman. Ma lo fa in una manciata di episodi insufficienti e con un approfondimento che a esser buoni è increspatura in superficie. Si tratta di intrattenimento certo, per chi spalmandosi sul divano la sera, stanco morto da una giornata di lavoro e magagne famigliari, vuole staccare il cervello e distrarsi, intanto che la vita scorre e magari l’infedeltà pure. Attenzione però: nella vulnerabilità della stanchezza le cose brutte fanno male all’anima, altroché.
Carlo Pentecoste (Michele Riondino) è uno scrittore in crisi dopo un primo romanzo di successo, insegna scrittura creativa, prende una bella sbandata per un’alunna (Carolina Sala nella parte di Sofia Casadei) e approfitta del suo ruolo di superiorità per portarsela a letto. Ma soprattutto da come insegna creative writing, a scrivere non imparereste mai (e forse è qui il nodo della faccenda: se chi sceneggia impara da insegnanti come Pentecoste, siamo nei guai). Irreale, ovvio (con occhiale intellettualoide d’ordinanza), assorbito dal suo ruolo, battuta pronta, appeal e capacità di mentire quando serve, in buona sostanza è un damerino, per non dire un fighetto. La citazione muraria da Kafka all’entrata della scuola dove insegna è semplicemente una bestialità.
Margherita Verna (Lucrezia Guidone) è invece un’agente immobiliare con una laurea in architettura in tasca. Vorrebbe occuparsi di progettazione d’arredamento d’interni, ma vende (e desidera) case per superricchi, dove consuma un torrido rapporto sessuale con il marito Carlo (è la prima scena della serie, all’insegna del “facciamo un po’ quello che ci pare”: programmatica per non dire didascalica). Se la fa con il suo fisioterapista prima e con un artista presentatole da un’amica poi. Con Carlo sono sempre più bassi che alti e fra incazzature, pianti, bicchieri di vino di troppo e scenate una volta sì e l’altra anche ti viene da dirle di calmarsi e fermarsi un attimo a riflettere, che la vita è breve, povera donna.
Intorno il panorama è fatto di amici sentimentalmente precari, aperitivi, sms (effetto “Perfetti sconosciuti”) e un’atmosfera perennemente alto-borghese. Perché si sa che per il cinema italiano il Belpaese è un enorme attico ai Parioli da Bolzano a Palermo. O una periferia scalcinata dove metti la tua stucchevole telecamera per raccontare con immancabile compassione come sono poveri e disgraziati questi. Oppure ancora volgi lo sguardo a un qualche paesino di montagna o di mare dove sopravvivono le belle tradizioni di una volta. Cinema souvenir, un nuovo genere che abbiamo inventato noi.
La classe media, che è poi la maggior parte della popolazione del nostro Paese, quella che fa una vita normale fatta di routine. Quella che prova a tirare avanti nonostante tutto (i soldi, l’amore, la salute, etc.) e magari fa lavori come l’operaio o la donna delle pulizie e vive in un monolocale da 45 mq (non il “monolocale” due stanze più bagno in cui vivono i protagonisti di “Fedeltà”). Quella tipologia umana lì, insomma, sullo schermo non esiste quasi mai. E intanto il cinema e la fiction si portano a una distanza siderale dalla realtà, o la banalizzano come meglio non si potrebbe – e in questo sembrano tragicamente come la classe politica attuale. Film e poltrone: una grande abbuffata, ma di surgelati.
Tra una sceneggiatura zeppa di banalità – in cui sembra che gli attori non interpretino il loro personaggio, ma interpretino il ruolo dell’attore che interpreta il loro personaggio – e un’ambientazione milanese in cui Milano è una metropoli che pare esistere solo in piazza Gae Aulenti e dintorni, “Fedeltà” è un’enorme occasione sprecata. Quella di raccontare le difficoltà d’oggi nel mantenere dei legami saldi e di come il desiderio (quello carnale come quello esistenziale) sia un’arma a doppio taglio dove la parola “sacrificio” viene abolita. L’amore è gioia, significato esistenziale, costruzione di un futuro, completezza reciproca, vitalità sessuale ma anche sacrificio e rinuncia. E la fedeltà a noi stessi passa inevitabilmente attraverso la fedeltà all’Altro. Quella degli spettatori poi, se dovessero premiare un’opera simile, sarebbe materia di cui preoccuparsi. Houston, rispondete.