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#coseserie: Dagli dèi con passioni mortali ai drammi della vita moderna, 5 serie tv da non perdere

Articolo. L’autunno è il momento perfetto per scoprire nuove serie. Dalle divinità decadenti di «Kaos» alla comicità romantica di «Nobody Wants This», passando per il dramma psicologico di «Eric», fino a «Hacks» e «A Body That Works», ecco 5 imperdibili storie da gustare.

Lettura 7 min.

Con l’arrivo dei primi freddi, le giornate si accorciano e le temperature si abbassano, portandoci a cercare rifugio nelle calde atmosfere delle nostre case. Se anche voi vi siete trovati a trascorrere le sere tra coperte e snack, preparatevi a prendere appunti: abbiamo selezionato cinque serie tv Netflix da aggiungere alla vostra lista.

«Kaos», viaggio nella vita quotidiana degli dei dell’Olimpo

In un presente alternativo dove il culto degli antichi dèi greci è ancora vivo e vitale, la serie «Kaos» porta sul piccolo schermo una versione contemporanea e affascinante della mitologia classica.

Zeus (interpretato con ironia e carisma da Jeff Goldblum) regna ancora dall’Olimpo, ma la sua figura non è più quella del potente e infallibile sovrano dei tempi antichi. È invece un dio vulnerabile, preoccupato dai segni di invecchiamento – la comparsa di una ruga sulla fronte – che interpreta come un presagio dell’inizio della sua fine.

Questo segnale per lui rappresenta l’inevitabile avanzata del chaos, che minaccia non solo il regno degli dèi, ma anche quello degli uomini.

Il narratore della storia è Prometeo incatenato ad una rupe, condannato per l’eternità a subire il supplizio dell’aquila che gli divora il fegato. Nonostante questo destino crudele, Zeus lo convoca quotidianamente per parlargli, rendendolo il suo confidente. Questo conferisce a Prometeo una posizione privilegiata per osservare il disfacimento dell’Olimpo e tramare, allo stesso tempo, contro il despota.

Il pantheon greco presentato in «Kaos» è popolato da dèi che rispecchiano la decadenza del loro sovrano. Ade (interpretato magistralmente da David Thewlis), re degli inferi, sta perdendo il controllo sui morti, che iniziano a ribellarsi. Il suo regno non è più un luogo di ordine e disciplina, ma un riflesso dell’entropia che si sta diffondendo ovunque. Poseidone, dio dei mari, si dimostra indifferente, quasi distaccato, perso in frivolezze e interessi futili, dimostrando una disconnessione crescente rispetto al mondo che dovrebbe governare.

Un altro punto focale della trama è Dioniso, dio del vino e dell’ebbrezza, che in questa versione assume un ruolo di ribelle in conflitto con Zeus. La tensione tra padre e figlio è palpabile, e si intreccia alla trama più ampia della ribellione imminente.

Parallelamente agli scontri tra gli dèi, sulla Terra un gruppo di sei mortali scopre di essere parte di un’antica profezia destinata a rovesciare il dominio divino. Il loro scopo è chiaro: vendicare l’umanità, che per troppo tempo ha subito la negligenza e la crudeltà di divinità distaccate e corrotte. Questo gruppo diventa l’emblema della resistenza umana contro l’oppressione divina, aprendo a riflessioni profonde sul destino e sul libero arbitrio.

«Kaos» riesce a modernizzare la mitologia classica in modo originale, senza mai perdere di vista le sue radici. Gli spettatori vengono trascinati in un mondo familiare, ma allo stesso tempo sorprendente, dove le antiche leggende trovano nuove forme di espressione. Il risultato è una serie di domande profonde che emergono tra le vicende divine e umane: fino a che punto il destino è già scritto?

«Nobody wants this» e le relazioni amorose tragicomiche

«Nobody wants this» è una rom-com di Netflix che ha già conquistato un posto tra le serie più viste del momento, grazie a un cast d’eccezione che sfrutta l’effetto nostalgia per conquistare (riuscendoci) il cuore dei millennials.

I protagonisti dello show sono infatti Joanne (Kristen Bell volto di Veronica Mars) e Noah (Adam Brody che interpreta il Seth Cohen di «The O.C.»), due personaggi apparentemente agli antipodi: lei, una podcaster che affronta con cinismo e ironia le relazioni amorose moderne, lui, un rabbino in ascesa, timido ma determinato a sfidare le convenzioni della sua comunità.

Joanne e Noah si trovano a dover gestire il contrasto tra le loro diverse visioni del mondo e le rispettive famiglie, entrambe ingombranti. In particolare, il personaggio di Noah proviene da una comunità ebraica molto conservatrice, che vede con sospetto la loro relazione dando vita a siparietti e fraintendimenti che risultano al tempo stesso credibili e grotteschi.

Anche le spalle dei protagonisti, interpretate da Justine Lupe (Willa in «Succession») e Timothy Simons (Veep), regalano momenti di comicità e dolcezza, arricchendo il racconto con situazioni tragicomiche che spezzano la tensione.

In conclusione, «Nobody wants this» è il classico comfort show che mescola sapientemente ironia e tenerezza, con due protagonisti che, nonostante le differenze, riescono a trovare un equilibrio che fa tifare per loro fin dal primo incontro.

«Eric» tra l’innocenza dei burattini e la crudeltà di New York

«Eric» si distingue dalle tipiche storie vere che spesso popolano le serie TV moderne, pur essendo completamente immaginaria. Ideata da Abi Morgan e diretta da Lucy Forbes , la serie, composta da sei episodi, è ambientata nella New York degli anni ’80 e racconta la vicenda di Vincent Anderson (interpretato da Benedict Cumberbatch) e sua moglie Cassie (Gaby Hoffmann).

La coppia è sconvolta dalla scomparsa del figlio Edgar, un bambino di nove anni sparito misteriosamente mentre andava a scuola. In parallelo, seguiamo le indagini della polizia, in particolare del detective afroamericano Ledroit (McKinley Belcher III), che si trova a combattere non solo contro il crimine, ma anche contro i pregiudizi razziali e sessuali all’interno del dipartimento e nella caotica metropoli newyorkese.

La trama potrebbe sembrare quella di una tipica storia di scomparsa, ma «Eric» offre qualcosa di diverso attraverso due aspetti chiave. Il primo è la straordinaria performance di Benedict Cumberbatch. Il suo Vincent è lontano dall’immagine tradizionale del genitore disperato che cerca il figlio. Al contrario, Vincent si immerge in una spirale autodistruttiva che lo porta ad allontanare chiunque gli sia vicino, inclusa sua moglie e i genitori benestanti. Tuttavia, la sua sofferenza e il suo dolore restano palpabili, rendendolo un personaggio che nonostante tutto suscita empatia, soprattutto nelle intense e dolorose scene con Cassie, in cui emergono con brutalità le colpe reciproche che hanno indirettamente ferito anche Edgar.

Il secondo elemento che distingue la serie è la professione di Vincent. Come burattinaio di successo, è il creatore del popolare show per bambini «Good Day Sunshine», che ricorda i celebri «Muppet». Tuttavia, la sua rabbia e frustrazione contrastano con il lavoro creativo per cui è famoso. Il nuovo pupazzo Eric, a cui stava lavorando il figlio prima della scomparsa, diventa una figura simbolica e centrale, che inizia a rappresentare la coscienza di Vincent. Le scene in cui il protagonista interagisce con il pupazzo danno alla serie un’atmosfera unica, mescolando elementi di dramma familiare e thriller psicologico, con Eric che diventa l’unico appiglio per Vincent nella sua disperata ricerca di Edgar.

La serie affronta anche il tema della discriminazione, rappresentando le difficoltà del detective Ledroit nell’affrontare un contesto sociale e istituzionale segnato da razzismo e corruzione. Le sue indagini lo conducono a sospettare di alcuni personaggi ambigui vicini alla famiglia, mentre l’integrità del dipartimento di polizia viene messa in dubbio. Dan Fogler, nel ruolo del migliore amico di Vincent, offre una figura di contrasto che aggiunge profondità alle dinamiche tra i protagonisti.

«Eric» è un racconto che mescola in modo originale l’innocenza del mondo dei burattini con il crudo realismo di una New York corrotta e pericolosa. La regia bilancia abilmente toni leggeri e atmosfere oscure, con una fotografia che rende la città affascinante ma al contempo minacciosa, creando un prodotto unico e coinvolgente.

«Hacks» la comicità dell’incontro intergenerazionale

«Hacks», la comedy acclamata negli Stati Uniti e finalmente approdata su Netflix in Italia, porta sul piccolo schermo un ritratto sagace e pungente della comicità contemporanea, mettendo a confronto due generazioni. Creata da Lucia Aniello, Paul W. Downs e Jen Statsky, la serie è ambientata nel mondo spietato della stand-up comedy e vede protagoniste la veterana Deborah Vance (Jean Smart) e la giovane autrice comica Ava Daniels (Hannah Einbinder).

La loro relazione, inizialmente disfunzionale, diventa il cuore pulsante della serie, esplorando la lotta per la notorietà nel mondo dello spettacolo e le sfide della comicità nell’era del politically correct.

La trama segue Deborah, una leggenda della stand-up di Las Vegas ormai sul viale del tramonto, e Ava, una giovane autrice in disgrazia dopo un tweet controverso che le ha chiuso le porte di Hollywood.

Uno dei grandi meriti di «Hacks» è la capacità di mescolare satira e ironia, offrendo uno sguardo realistico e crudo sulla difficoltà di “far ridere” in un’epoca in cui l’umorismo è spesso sotto scrutinio. Il personaggio di Jean Smart, che ha vinto vari premi per la sua interpretazione, è spietato e affascinante, rappresentando una generazione di comici che hanno forgiato il loro successo a colpi di battute affilate e resistenza al fallimento. Ava, d’altra parte, incarna la giovane creativa che deve navigare un panorama in cui la sensibilità verso certe categorie è imprescindibile, rendendo le sue battute un campo minato.

La serie utilizza le vite personali delle protagoniste come metafora per esplorare il dolore che spesso alimenta l’arte. «Hacks» riesce a essere sia divertente che toccante, bilanciando momenti di grande ilarità con un profondo esame delle difficoltà che le donne affrontano nel mondo dello spettacolo.

Il mondo di «Hacks» è popolato da personaggi eccentrici, tra cui spiccano l’assistente inefficace ma esilarante Kayla (Megan Stalter) e il collaboratore di Deborah, Marcus (Mark Indelicato), che arricchiscono ulteriormente la serie. Tuttavia, la vera forza risiede nella chimica tra Smart ed Einbinder, le cui dinamiche trasformano quello che poteva essere un cliché della commedia in un’esplorazione brillante di due donne che trovano, seppur a fatica, un terreno comune.

«A body that works», come reagiremmo noi?

«A body that works» è una serie israeliana creata da Shay Capon, Shira Hadad e Dror Mishani, che affronta un tema spinoso e complesso come la maternità surrogata, un argomento che, se trattato superficialmente, rischia di scivolare nel sentimentalismo e nei cliché. Tuttavia, la serie si distingue per la sua capacità di evitare questi pericoli, offrendo invece una narrazione profonda, psicologicamente complessa e credibile.

La storia ruota attorno a una coppia che, dopo numerosi tentativi falliti di concepire, decide di ricorrere alla maternità surrogata. La decisione, apparentemente risolutiva, diventa invece il catalizzatore di una serie di conflitti emotivi e relazionali che mettono a dura prova non solo il rapporto della coppia, ma anche la vita della madre surrogata.

Il tema centrale è la genitorialità, ma ciò che dà valore alla serie è il modo in cui esplora le complesse dinamiche emotive che si instaurano tra i tre protagonisti. Quando si tratta di persone, “tre” è sempre un numero difficile da gestire, e la serie sfrutta appieno questa premessa per sviluppare una trama ricca di tensioni emotive.

Uno degli aspetti più affascinanti di «A body that works» è la profondità psicologica con cui i personaggi vengono trattati, non sono mai monodimensionali: si evolvono, cambiano, mostrano contraddizioni e fragilità.
La maternità surrogata diventa, così, il contesto in cui si esplorano temi ben più ampi: il senso di inadeguatezza, la paura di non essere all’altezza delle aspettative, il desiderio di controllo sulla propria vita e sulla vita altrui. Queste tematiche sono affrontate con una scrittura mai superficiale, che evita di ridurre i personaggi a semplici archetipi. Al contrario, ognuno di loro è complesso, con una propria storia e una propria evoluzione, e la serie invita costantemente lo spettatore a mettersi nei loro panni e a chiedersi: come avrei reagito in questa situazione?

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