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#coseserie: 5 serie tv (+ bonus) da vedere in questo periodo

Guida. Abbiamo scelto cinque produzioni che offrono spunti interessanti, tra riflessioni sociali, tensioni psicologiche e narrazioni più o meno storiche. E per concludere, un ripescaggio dal passato per chi cerca qualcosa di leggero e coinvolgente.

Lettura 7 min.
«Machos Alfa», la serie indaga con umorismo la questione dell’identità maschile

Pronti a godervi gli ultimi freddi prima di salutare la copertina di pile? Mettetevi comodi e buona visione!

«Citadel: Diana» (su Amazon Prime)

Ok, lo ammetto, dopo «La legge di Lidia Poet» di cui naturalmente ho visto anche la seconda stagione, ho voluto dare una seconda possibilità a Matilda De Angelis, complice anche il sondaggio che ho avviato sui miei canali social per farmi consigliare dalla mia community. Quotata da molti, non ho potuto che assecondare il “volere del popolo”.

Siamo nel 2030, in una Milano che sembra uscita da un’apocalisse distopica: il Duomo è a pezzi, le strade brulicano di militari e l’aria è tesa come una corda di violino. Qui incontriamo Diana Cavalieri (Matilda), un’agente sotto copertura che opera per Manticore una potente associazione che forse gioca su due fronti con Citadel, agenzia indipendente di spionaggio internazionale nata con lo scopo di difendere la sicurezza dell’umanità.

Come ogni spy-story che si rispetti, anche «Citadel: Diana» ha il suo bel carico di colpi di scena, giochi di potere e doppi giochi (anzi, tripli, perché esagerare è sempre meglio). Il passato della protagonista si svela poco a poco, tra flashback e traumi che l’hanno trasformata in una macchina da guerra. Ad affiancarla, o meglio, a complicarle la vita, c’è la famiglia Zani: il perfido boss Maurizio Lombardi, sua moglie Julia (Thekla Reuten) e il giovane idealista Edoardo (Lorenzo Cervasio).

Ma non finisce qui: c’è anche la famiglia di Diana, con la sorella Sara (Giordana Faggiano), ignara di tutto, e Gabriele (Filippo Nigro), il mentore che l’ha trasformata in un’agente senza scrupoli. Insomma, non manca nessuno degli ingredienti classici del genere, ma la serie riesce comunque a dare freschezza al tutto con una narrazione serrata e un’azione senza fronzoli.

Il regista Arnaldo Catinari ha dichiarato di aver voluto un realismo più sporco e tangibile, e il risultato è evidente: scontri corpo a corpo che fanno male solo a guardarli e una tensione palpabile in ogni sequenza. E poi c’è il comparto tecnologico, che fa il suo dovere senza strafare, con gadget e armi futuristiche che non sembrano uscite da un cartone animato.

«Citadel: Diana» dimostra che anche in Italia possiamo fare serie d’azione di livello internazionale senza scimmiottare gli americani. Qui si punta meno sulla perfezione estetica asettica del capostipite e più sui rapporti tra i personaggi, senza dimenticare l’adrenalina e la cura per gli stunt. Il risultato? Un prodotto solido, coinvolgente e con un cast in gran forma. Se vi piacciono le spy-story con un’anima, questa è da vedere. E speriamo sia solo l’inizio.

«Cent’anni di solitudine» (su Netflix)

Quando si porta sullo schermo un capolavoro della letteratura come «Cent’anni di solitudine», l’operazione è tanto ambiziosa quanto rischiosa. La serie targata Netflix, realizzata in Colombia con la supervisione della famiglia di Gabriel García Márquez, si confronta con un romanzo tra i più amati e complessi della letteratura mondiale. Il risultato? Un adattamento che, pur sacrificando parte della profondità dell’opera originale, riesce a evocare l’atmosfera di Macondo e a restituire la forza epica della storia della famiglia Buendía.

Sin dalle prime battute, la serie dimostra un rispetto reverenziale per il testo, mantenendo intatto l’incipit iconico che apre il romanzo. Ma se la fedeltà formale è evidente nelle prime scene, nel prosieguo la narrazione prende una piega diversa, più vicina alla sensibilità del pubblico contemporaneo. Il realismo magico, cifra stilistica di García Márquez, trova una traduzione visiva suggestiva ma inevitabilmente meno evocativa rispetto all’immaginario che la parola scritta sa generare. Il mistero e l’imponderabile, elementi fondamentali del romanzo, vengono resi attraverso soluzioni visive che ricordano il folklore latinoamericano, ma con meno profondità rispetto alle atmosfere oniriche e potenti create dallo scrittore.

Dal punto di vista narrativo, la serie opta per un approccio più lineare, dando grande risalto alle vicende sentimentali e ai conflitti familiari, spesso a scapito del contesto storico e sociale. Questo sposta il baricentro della storia verso un registro che ricorda la soap opera latinoamericana, con intrecci melodrammatici e passioni travolgenti che del resto tanto piacciono agli spettatori. Una scelta che potrebbe far storcere il naso ai puristi del romanzo, ma che al tempo stesso rende la serie più accessibile a un pubblico più ampio, trasformandola in una saga familiare avvincente e visivamente ricca.

Se il romanzo resta insostituibile, la serie rappresenta comunque un omaggio visivamente potente alla straordinaria epopea della famiglia Buendía. Un’opera che, nel bene e nel male, invita a (ri)scoprire la grandezza di García Márquez, nel caso ce ne fosse bisogno.

«M - Il figlio del secolo» (Su Sky e Now)

Sono qui per farvi una confessione, miei cari lettori. Visto il clamore che ha ottenuto nei giorni successivi alla sua presentazione alla Mostra del Cinema di Venezia, volevo dedicare un intero articolo a quella che ha tutti gli ingredienti per essere una serie evento, ma che a me personalmente non convince. Diretta da Joe Wright, interpretata magistralmente - dice la critica - da Luca Marinelli che di Benito Mussolini assume l’accento, l’aspetto, il fisico, il portamento.

Come si intuisce dal titolo, la serie narra l’ascesa al potere e la caduta di Mussolini secondo la prospettiva del romanzo omonimo vincitore del Premio Strega di Antonio Scurati.

«M. Il figlio del secolo» non si limita a raccontare l’ascesa politica di Mussolini, ma getta uno sguardo sulle sue relazioni personali, mostrando il lato più intimo del Duce. Tra la moglie Rachele, l’amante Margherita Sarfatti e altre figure chiave dell’epoca, la serie ricostruisce i legami e le dinamiche private che hanno accompagnato la costruzione del regime. Un ritratto che, al di là della retorica e della politica, esplora anche il lato più umano – e contraddittorio – di uno dei protagonisti più discussi della storia italiana.

La scelta di rompere la quarta parete col duce che si rivolge direttamente allo spettatore nei suoi deliri di onnipotenza, risulta a tratti stucchevole.

Marinelli è circondato, come dicevo, da un cast che eleva ulteriormente la serie: Barbara Chichiarelli è una magnetica Margherita Sarfatti, Francesco Russo dà spessore al tormentato Cesare Rossi, Gaetano Bruno è un Giacomo Matteotti fiero e tragico. La regia alterna con sapienza sequenze storiche a momenti di pura introspezione, evidenziando il contrasto tra l’uomo e il mito, tra la realtà e la narrazione che Mussolini costruisce di sé stesso.

L’ultimo episodio è una chiusura gelida e spietata. Il merito della rappresentazione è che non si limita a raccontare il passato, ma suggerisce un monito per il presente. La storia, come sempre, non è mai solo storia: il populismo, il culto della personalità, la ricerca di leader carismatici pronti a offrire soluzioni semplici a problemi complessi restano dinamiche attuali. Il fascino del potere, la sua capacità di sedurre e sopraffare, è un meccanismo che si ripete. «M. Il figlio del secolo» ci invita a riconoscerlo.

«ACAB» (Su Netflix)

Ispirata al film omonimo di Stefano Sollima «ACAB – All Cops Are Bastards», del 2012 che questa volta subentra nelle vesti di produttore, con «ACAB – La Serie». Diretto da Michele Alhaique, il nuovo progetto espande l’universo narrativo del film, mantenendo il taglio cupo e spietato.

La serie si apre con un’operazione controversa in Val di Susa contro un presidio No Tav. L’intervento si conclude con il ferimento grave di un agente, Pietro (Fabrizio Nardi), e l’arrivo di un nuovo comandante, Michele Nobili (Adriano Giannini), un poliziotto dalla reputazione ingombrante: anni prima ha denunciato abusi commessi da suoi colleghi. La sua presenza scatena tensioni all’interno della squadra, in particolare con Mazinga (Marco Giallini), volto noto del film, e Marta (Valentina Bellè), unica donna nel reparto, alle prese con una vita privata complicata.

Il cuore della serie è proprio la fragilità umana dei protagonisti. Ogni personaggio porta sulle spalle un bagaglio di stress e frustrazioni: Pietro vede il suo matrimonio sgretolarsi, Marta lotta con un ex marito violento, mentre Salvatore (Pierluigi Gigante) è un celerino con problemi di gestione della rabbia. Nessuno è totalmente buono o cattivo, e lo show evita con cura di dipingere la polizia come un monolite eroico o un sistema irrimediabilmente corrotto.

«ACAB – La Serie» si distingue per un tono duro e inclemente. Ogni situazione personale si intreccia con un ambiente lavorativo logorante, dove il confine tra vittima e carnefice è labile. La fotografia scura, quasi noir, contribuisce a creare un senso di costante oppressione, mentre le riprese ravvicinate sui volti degli attori amplificano il senso di sofferenza dei personaggi.

Nel complesso, «ACAB – La Serie» è un prodotto maturo, lontano dagli stereotipi della fiction italiana mainstream. La sua capacità di mantenere un equilibrio tra denuncia e analisi introspettiva, andando oltre i cliché che sono associati al genere (soprattutto in Italia) la rende una serie meritevole di attenzione, anche a livello internazionale. Speriamo.

«Mina Settembre» (Su Rai Play)

Questa è una licenza che mi prendo dall’alto dei miei trent’anni, ovvero quella di consigliare una serie Rai. Ma devo dire che seguo Serena Rossi dai tempi in cui era nel cast di «Un posto al sole» nei panni di Carmen. Omonimie a parte, non ho potuto fare a meno di notare la sua maturazione artistica che ha dato vita a un personaggio credibile e vicino agli spettatori. Mina è forte, testarda, fragile, forte, ma anche goffa, distratta e istintiva: è questo mix di qualità e difetti a renderla così autentica. In questa terza stagione, la fiction fa un passo avanti, mostrandoci una Mina più matura, costretta a prendersi cura di sé stessa e di chi le sta accanto.

La fiction diretta da Tiziana Aristarco, ispirata ai racconti di Maurizio De Giovanni, riparte con dodici episodi suddivisi in sei prime serate, portando con sé nuovi volti e nuove sfide per la protagonista.

Gelsomina Settembre, meglio conosciuta come Mina, è un’assistente sociale impegnata nel cuore di Napoli, dove, nel consultorio familiare in cui lavora, si dedica ogni giorno ad ascoltare e sostenere chiunque abbia bisogno di aiuto e supporto psicologico.

Dopo la morte della madre Olga (Marina Confalone), Mina si trova a gestire una nuova quotidianità: una casa diversa, una bambina, Viola (Ludovica Nasti), sotto la sua responsabilità e un amore, Domenico (Giuseppe Zeno), momentaneamente lontano. La situazione si complica quando Mina scopre che per mantenere la custodia della piccola dovrà sposarsi, mentre Viola inizia a cercare la verità sulla madre biologica. Il tutto si intreccia con i casi difficili che Mina affronta a lavoro, perché smettere di aiutare gli altri non è un’opzione.

La stagione introduce nuovi personaggi, come Fiore (Chiara Russo), giovane assistente sociale a cui Mina farà da mentore, e Jonathan (Erasmo Genzini), destinato a far vacillare il suo cuore (perché gli struggimenti amorosi sono quello che ci tiene incollati alla tv).

Ma al centro del racconto c’è soprattutto la costruzione di una famiglia, che non è solo un legame di sangue, ma un processo fatto di scelte, rinunce e responsabilità. E con questa consapevolezza che comprendiamo Viola nel non volersi distaccare da colei che l’ha messa al mondo e Mina capiamo la gelosia di Mina che cerca di contenere il suo dispiacere. Come finirà?

Bonus: «Machos Alfa» (terza stagione) su Netflix

Arrivati ai titoli di coda mi concedo di suggerirvi di guardare una serie della quale avevo già ampiamente parlato: «Machos Alfa» della quale è stata appena rilasciata l’ultima stagione. La questione dell’identità maschile nel mondo contemporaneo, sviscerata nei capitoli precedenti, viene affrontata con un ancor maggiore umorismo. Nella nuova stagione, i quattro amici mettono da parte i consigli della terapia e, dopo il fallimento di un improbabile corso sulla riscoperta della virilità, si ritrovano inevitabilmente a ripetere gli stessi errori di sempre. Quali saranno le conseguenze?

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