Quando devo scrivere un pezzo su una serie tv, prima di cominciare, solitamente prendo due strade: leggo le recensioni e cerco i commenti degli utenti sui social. Le prime mi servono per capire cosa non scrivere, le seconde per capire cosa percepiscono le persone dalla narrazione, per provare a confermare o a ribaltare le loro tesi. Con “Inventing Anna” ci sono sostanzialmente due fazioni contrapposte: quelli che scrivono: “ma quindi la morale è che basta essere carine e vestirsi bene per truffare il mondo dei grandi affari?”. E poi c’è chi racconta storie di altre grandi truffe, messe in atto da personaggi altrettanto improbabili.
Ebbene, vi svelo un segreto: le serie tv funzionano e si sviluppano attraverso eccezioni e ricorrenze. Le ricorrenze si collegano alle nostre convinzioni, a ciò che sappiamo già, a quello che crediamo giusto, vero, necessario. Si esprimono generalmente aggrappandosi a luoghi comuni ed è in questo che risiede la loro efficacia. Possiamo dire, ad esempio: “I soldi non fanno la felicità” e Anna ci risponderebbe “Però meglio piangere in una Ferrari che in una Fiat Punto”. Le eccezioni sono l’imprevisto. È quello che generalmente ci tiene incollati allo schermo, perché l’eccezione fa appello alle nostre paure, ai nostri desideri nascosti, alle nostre passioni più recondite. È vero, i soldi non fanno la felicità, ma tutti vorremmo averne abbastanza da non dover lavorare tutti i giorni. C’è chi gioca alla lotteria, chi prova a scrivere un libro di successo, un articolo che gli svolti la carriera (no, non sono io…). I soldi non fanno la felicità e la felicità non esiste. Ma noi speriamo sempre di essere l’eccezione che conferma la regola, almeno finché non facciamo i conti con la realtà.
Questa è la storia di Anna Delvey ed è del tutto vera. Questa non è una recensione e noi non faremo la morale.
Tutto ciò che viene creduto reale, prima o poi esiste
Se volessimo estremizzare la formula visiva, il momento esatto in cui verità e menzogna si mescolano dando vita a quella che oggi chiameremmo post verità e non pura e banale sciocchezza, potremmo esprimerci così. Daremmo ragione al genio di Gigi Proietti che attribuiva alla dimensione teatrale il potere di partorire “finzione ma non falsità”. I nativi digitali e gli attori lo sanno bene: non c’è nulla di più costruito della verità e alla costruzione del vero non è poi così difficile credere.
In un magma indistinto di certezze, la fantomatica ereditiera tedesca Anna Delvey (Giulia Gardner) cavalca come un’abile amazzone l’aspirazione di diventare una giovane donna in carriera, mecenate delle arti e acuta fiutatrice d’affari, che sa fare del lusso e del gusto il proprio biglietto da visita. Una prospettiva certamente allettante se non fosse tutta una truffa quasi perfetta che la porterà dietro le sbarre.
L’intrigo narrato attinge a piene mani dal circo della cronaca: “Inventing Anna” fa infatti da colorito (e neanche troppo) filtro a quanto la giornalista Jessica Pressler fece emergere in un articolo pubblicato per il “New York Magazine”. “Come Anna Delvey ha ingannato la gente di New York?”, si domandò la reporter della Grande Mela nel 2018 intervistando conoscenze e affetti della giovane. Un quesito che sullo schermo la sceneggiatrice Shonda Rhimes affida alla cronista Vivian Kent (Anna Chlumsky), pronta a tutto per riabilitare la propria reputazione professionale, macchiata da un mancato fact checking fatale, prima di diventare madre. Ma la domanda è rivolta a tutti noi: è bastato davvero condurre uno stile di vita al di sopra delle proprie possibilità, ostentarlo sui social media, attirare a sé le conoscenze delle alte e basse sfere sventolando sotto il naso un fondo fiduciario fantasma da capogiro e calzando ballerine griffate, per svuotare le tasche e plagiare le menti?
Sembrerebbe proprio di sì, dal momento che né le stelle né i sobborghi statunitensi avevano mai dubitato di una così luccicante carta d’identità. Banche avvedute, professionisti navigati, albergatori e ristoratori pluristellati, filantropi esperti sono rimasti impigliati nella rete di una venticinquenne russa, figlia di un camionista e di una casalinga che spiava l’alta società solo dalle copertine patinate, sentendosene già un membro a pieno titolo.
Il mistero di cui è intrisa la trama non viene certo svelato in nove episodi, ma si infittisce restando sul filo dell’ambiguità. Il punto della questione è che Anna ossessionata dalla fama non è frivola: è una creatura capace di attirare attorno a sé un dream team disegnando con sfrontatezza il futuro della “Anna Delvey Foundation”. E quello che traspare scuotendo la sua corazza nitida e intricata è la pelle di chi crede davvero di poter centrare l’obiettivo.
Siamo solo ciò che crediamo di essere…fino a prova contraria
Il volto candido ed enigmatico di Julia Garner restituisce le fattezze di una manipolatrice di sé e degli altri, capace di distinguere il bene dall’interesse e di simulare il dolore, la perdita, il maltrattamento, di indurre il pianto o il riso pur di non scalfire un trucco che è già insito nell’epidermide. Un’incantatrice di serpenti che prima di ingannare il globo è riuscita a convincere sé stessa di quanto fosse speciale. Così speciale, che nessuno, tanto meno Vivian, la giornalista, non potrà mai essere. Non è merito del suo abito, del suo denaro, della sua memoria fotografica. Ma di come la combinazione di questi elementi arricchisce il suo “curriculum”, donandole preziose carte in regola per essere un’eletta anche senza avere il “sangue blu”: Anna è una che fa sul serio continua a ripetere chi le sta intorno. La sua immagine, i viaggi, gli investimenti, la capacità di intercettare i punti deboli dei propri interlocutori, l’intraprendenza e perfino i giustificabili ritardi su ingenti pagamenti, fanno di lei una potenziale vincente.
Ed è questo a generare la concatenazione di eventi che la vedono trionfare, ad un passo dal tracollo. Lei è per tutti un’ereditiera tedesca perché risponde perfettamente a tutte le aspettative connesse al suo ruolo. Nel privato e nel pubblico, fuori e dentro le carceri, alla luce di una condanna che mai sconterà pienamente. Tanto che il racconto seriale delle sue gesta ha fruttato un succulento bottino con il quale ha sanato i suoi debiti.
“Questa storia è del tutto vera. Tranne le parti completamente inventate” è Ia frase che apre tutti gli episodi della sua “avventura” resa fiction. Un mantra che pare quasi strizzare a ciò che i sociologi Robert K. Merton e William Thomas avrebbero attribuito alla capacità degli uomini di “definire certe situazioni come reali rendendole tali nelle loro conseguenze”.
La distinzione tra i fatti e le questioni romanzate non è più il fulcro della nostra attenzione perché il messaggio che Anna prova a trasmettere (a torto o a ragione) è che non è importante ciò che sei ma ogni cosa che dimostri di essere o di poter essere. Si tratta di un cieco ed esemplificativo atto di fiducia che la società ci concede appena le porgiamo uno specchio che ripropone il riflesso sperato e dal quale si finisce col trarre più o meno consapevolmente un vantaggio.
“L’affare Delvey” consentirà a Vivian Kent di scrollarsi di dosso l’immagine di “cattiva giornalista”, al suo difensore Todd Spodek (Arian Moayed) di indossare la toga con spessore e sicurezza, rappresentando per ogni comparsa di questa gigantesca messa in scena un punto di svolta, un conveniente alibi di inettitudine, una gallina dalle uova d’oro. Mentire, frodare, abusare della buona fede altrui non sono certo peccati minori: lo dice la legge e lo conferma il buon senso. Eppure, una vocina flebile sembra dirci che ciascuno di noi potrebbe essere implicitamente coinvolto nella creazione di un fenomeno mediatico placcato di convincente inconsistenza. Un like in più, un’emulazione collettiva, un’ammirazione e un’invidia ammesse a bassa voce, sono quasi il lasciapassare verso l’assoluzione.
Per non sentirci colpevoli di aver voltato lo sguardo, per non accettare di esserci fatti abbindolare, per illuderci che noi non saremmo stati tra questi stolti che hanno creduto alla sua recita, arriviamo a empatizzare con “la principessa scaltra”. Non esiste uno smascheramento alla fine del percorso perché questo è uno tra i giochi più seri a cui abbiamo mai assistito e forse addirittura partecipato.
Probabilmente neppure dopo i titoli di coda ci accorgeremo di aver appena terminato la visione di un altro tassello del piano “vip” di Anna. Di essere stati spettatori avidi delle sue lezioni di stile da bad girl in tribunale, tifosi “di chi non ce l’ha fatta per un soffio ma comunque li ha fregati tutti” come dimostra la fedina penale.
Un minuto dopo aver letto queste righe, saremo già diventati suoi followers, perché colpevole o innocente Anna Delvey funziona e vorremmo assomigliarle o le assomigliamo almeno un po’, più di quanto saremmo mai disposti ad ammettere. Anna Delvey (quella vera) oggi ha scontato la sua pena, ha un account Instagram e va in giro a sponsorizzare la serie tv che racconta la sua storia.
Del resto, lo aveva detto: Anna è una che fa sul serio.