Se un domani sparissero dalla faccia della terra donne, uomini, bambini e anziani, il resto della biosfera non ne sentirebbe la mancanza… anzi, potrebbe stare pure meglio. Parte da questa riflessione l’incontro con Telmo Pievani, in dialogo con Corrado Benigni, Presidente di Bergamo Festival Fare la Pace domenica 12 luglio alle ore 21.
In due giorni, dal 10 al 12 luglio, il Festival – che quest’anno si terrà all’interno della meravigliosa cornice del Monastero di Astino – inviterà scrittori, intellettuali, poeti, scienziati e politici a ragionare attorno al titolo “Quel che resta del bene”, scelto per riflettere sull’emergenza appena trascorsa e il futuro che verrà.
Il bergamasco Pievani, professore ordinario presso il Dipartimento di biologia dell’Università degli studi di Padova e membro del comitato scientifico di Bergamoscienza, identifica il “bene” con la “natura” e, come ribadito nel suo ultimo libro “La Terra dopo di noi”, proverà a dimostrare che il pianeta non ha assolutamente necessità dell’uomo, ma l’uomo invece ha bisogno di un pianeta in cui vivere.
AS: Professore, lei scrive che non siamo indispensabili per la biosfera e proprio per questo abbiamo avuto una preziosa occasione di vivere in essa. Cosa significa?
TP: Facciamo questo esercizio mentale che propongo spesso ai miei studenti: senza esseri umani sulla terra scopriremmo che il riscaldamento climatico tornerebbe in poco tempo entro limiti accettabili e la biodiversità ripartirebbe. Questo perché c’è un’asimmetria fondamentale, ovvero noi abbiamo bisogno della biosfera per sopravvivere, ma non viceversa.
AS: In piccolissima parte il confinamento vissuto durante i mesi di marzo e aprile ci ha mostrato quali siano gli effetti negativi che l’umanità ha sulla natura. Quindi sarebbe meglio scomparire?
TP: Ovviamente no, non dobbiamo auspicare di non esserci, quello che dobbiamo imparare da questo esercizio e dall’esperienza vissuta è l’umiltà. Dobbiamo ragionare sul fatto che siamo parte di un processo che può fare a meno di noi.
AS: Ora però lo abbiamo visto e lo abbiamo capito. O no?
TP: Purtroppo no, non lo abbiamo imparato. Forse a Bergamo, dove il costo pagato è stato terribile, resterà un segno più indelebile, ma per il resto no. Si tratta di una battaglia lunga e anche se abbiamo assistito a scene che ci hanno toccato nel profondo, ancora non riusciamo a capire il costo umano in termini di salute che la devastazione dell’ambiente produce.
AS: Si è parlato molto del contributo che l’inquinamento ha dato alla diffusione del Covid e al suo permanere più a lungo in un ambiente inquinato, però non si è arrivati a una conclusione chiara.
TP: Non è semplice. Nella scienza a volte si trovano delle correlazioni, ma non è detto che ci siano sempre una causa e un legame diretto. In questo caso specifico la correlazione evidente è che il Covid si è diffuso di più e ha fatto più male nelle zone più inquinate. In generale, questa pandemia è stata favorita dal tasso di inquinamento del territorio e la correlazione è data da due motivi indiretti, il primo è che i posti più inquinati sono anche quelli più affollati, il secondo è che dove c’è un alto livello di inquinamento le persone sono più deboli, hanno un sistema immunitario e dei polmoni meno capaci di resistere all’attacco di un virus. Non si può mettere in discussione il fatto che l’inquinamento faccia male.
AS: Durante la fase acuta della pandemia si è parlato spesso di riappropriarci dei piccoli paesi e dei borghi, della possibilità di cambiare stile di vita, di rallentare per inquinare meno, di vivere meno affollati e in maniera più naturale. Questa è una soluzione?
TP: Sì e no. Sparpargliarci sul territorio, usare più e meglio le tecnologie a nostra disposizione, avere centri più piccoli, diluirebbe molto l’impatto ambientale e l’inquinamento. Io stesso penso a quante riunioni fisiche partecipavo inutilmente, spostandomi da Bergamo a Padova e a Genova, quando adesso ormai è ovvio che una riunione di due ore si fa in digitale. Oggi è scontato, ma prima non lo era. Intendiamoci, ha ragione Stefano Boeri a dire che bisogna tornare a vivere nei borghi, ma la qualità della vita va mantenuta. I servizi, le possibilità della città non si devono mettere in discussione nella loro totalità, altrimenti si fa passare l’ecologia come una questione d’elité, di chi ha le possibilità e questo è sbagliatissimo.
AS: L’inquinamento fa male e pesa sull’economia. Ormai è nota l’equazione: se le persone stanno male e si ammalano sono un costo per tutta la comunità, molti Paesi stanno attuando politiche virtuose per mantenere i propri cittadini in buona salute. Quanto ci è costato il Covid?
TP: La pandemia la stiamo pagando cara. Sia in termini di vite umane che in termini economici e il conto finale sarà ancora più alto. Ora la grande differenza sarà fra i Paesi che usciranno dalla crisi cambiando paradigma e quelli che non lo faranno. La Germania e l’Europa in parte hanno già dettato la via: investire in green economy.
AS: Se è così semplice capire che stare male costa, che inquinare a questi livelli ci porta a stare male, perché non smettiamo subito?
TP: Qualcuno risponderebbe che è perché questi costi non sono ancora abbastanza alti e questo, in parte, è vero. Preferisco fare un altro esempio: se vado al supermercato e compro un chilo di carne e costa pochissimo sono contento. Penso che sia giusto, perché così molta più gente potrà permettersi di mangiare carne. Peccato che dentro quel chilo di carne ci sono dei costi enormi, che sto pagando in termini di riscaldamento climatico causato dagli allevamenti intensivi. Si potrebbe riconvertire l’allevamento in modo che sia più sostenibile, ma questa riconversione va fatta rispettando un processo industriale che sia sostenibile anche economicamente, altrimenti il prezzo della carne schizza alle stelle e torniamo al problema che l’ecologia diventa una cosa da ricchi. È difficilissimo, ecco perché non è così immediato uscirne, siamo dentro a un sistema in accelerazione continua con una stretta serie di relazioni. Non si risolve tutto domani, bisogna prendere decisioni politiche lungimiranti, con effetti di medio termine.
AS: Non è stata sufficiente la paura che abbiamo provato a farci cambiare?
TP: La paura non basta. È una reazione umana giusta, perché ci mette in allerta ma è contingente. Tutti abbiamo reagito al momento, ma trasformare la paura in un progetto è molto più difficile. Per questo sarà importante, quando ne verremo fuori con il vaccino, non dimenticarci delle cause che ci hanno portato a vivere la pandemia. Chiariamoci su un aspetto: un virus fa un salto di specie perché noi non interveniamo sul meccanismo che lo provoca e non lo stiamo facendo nemmeno ora. I mercati degli animali ci sono ancora e nelle medesime precarie condizioni igieniche. Non abbiamo rimosso le cause e per questo prepariamoci al prossimo contagio, perché il problema si riproporrà, così come si è già presentato in passato. Non occorre fare terrorismo ma sapere che dagli allevamenti intensivi si è già sviluppata l’aviaria, la suina: le pandemie partono da lì e se non rimuoviamo la causa, ovvero le terribili condizioni di questi allevamenti e degli animali al loro interno, il problema tornerà.
AS: Come si cambia davvero?
TP: Servono progetti, lungimiranza e un’azione politica che azzeri il debito ambientale che stiamo lasciando ai nostri figli.
AS: Le singole persone non possono fare nulla?
TP: Al contrario, il singolo può fare tanto e incide per il 30-40% su queste politiche. Con il suo consenso o meno, con ciò che scrive, manifesta e compra. I consumatori hanno tantissimi strumenti e non dobbiamo dimenticare che le grandi aziende temono la cattiva pubblicità sopra ogni altra cosa.