Negli ultimi decenni, i PFAS – sostanze perfluoroalchiliche – hanno rivoluzionato molti ambiti della nostra vita quotidiana, grazie alle loro proprietà uniche, come la stabilità termica e la repellenza a oli e acqua. Impiegati in settori che spaziano dall’industria tessile al settore sanitario e alimentare, questi composti chimici hanno però sollevato crescenti preoccupazioni per il loro impatto ambientale e sui possibili effetti sulla salute umana. Definiti forever chemicals per la loro resistenza alla degradazione naturale, i PFAS si accumulano nell’ambiente, rendendo complesso il loro smaltimento.
Un rapporto di Greenpeace del 2023 ha fatto luce sul problema in Italia, evidenziando come l’area del Veneto – in particolare la provincia di Vicenza – sia tra le più colpite dalla contaminazione. L’indagine, condotta su scala nazionale, ha sottolineato anche la mancanza di dati completi in alcune zone, tra cui la Lombardia e la provincia di Bergamo, a causa di informazioni frammentarie o analisi non ancora condotte in modo sistematico.
Nonostante il quadro possa sembrare preoccupante, è importante non cadere nell’allarmismo, ma affrontare la questione con consapevolezza e spirito costruttivo.
La ricerca scientifica sta infatti lavorando a soluzioni per limitare l’uso dei PFAS più pericolosi e per sviluppare alternative meno impattanti, soprattutto per le applicazioni industriali. Inoltre, la normativa europea si sta rapidamente evolvendo, puntando a regolamentare queste sostanze in modo più stringente, garantendo maggiore sicurezza per l’ambiente e la salute pubblica.
Una delle principali vie di contaminazione dei PFAS è attraverso le acque sotterranee e superficiali. Queste sostanze possono infiltrarsi nel suolo e raggiungere le falde acquifere, che sono una fonte primaria di acqua potabile per molte comunità. I PFAS sono altamente stabili e possono facilmente essere trasportati attraverso il flusso idrico, contaminando fiumi, laghi, bacini idrici e riserve di acqua potabile.
Ci sono realtà come Erica Srl che, oltre a operare nel campo della gestione e trattamento dei rifiuti industriali, si impegnano attivamente nella divulgazione e sensibilizzazione su temi complessi come quello dei PFAS, i cosiddetti “inquinanti eterni”.
Attraverso iniziative come il podcast «Ehi Erica, parliamo di PFAS?», giunto alla sua seconda stagione, queste aziende condividono anni di ricerca e sviluppo e rendono accessibili al grande pubblico conoscenze fondamentali per comprendere e affrontare il fenomeno.
Per approfondire il tema, abbiamo intervistato il professor Giuseppe Rosace, ordinario di chimica generale e inorganica presso l’Università di Bergamo.
CP: Professore, potrebbe aiutarci a comprendere meglio cosa sono i PFAS e perché vengono definiti “inquinanti eterni”?
GR: I PFAS – acronimo che sta per sostanze perfluoroalchiliche (in inglese perfluorinated alkylated substances), sono sostanze relativamente giovani, nate intorno agli anni ’40, come spesso accade, per un avvenimento casuale. Roy Plunkett, mentre stava lavorando per la DuPont nel tentativo di fabbricare un nuovo clorofluorocarburo da usare come refrigerante per i cicli a compressione, ottenne un prodotto altamente resistente ed antiaderente, che si è rivelato nel tempo profondamente interessante per moltissimi sbocchi commerciali.
Questi prodotti hanno dato un vantaggio innegabile a molti materiali della nostra vita quotidiana a partire dagli anni ‘50. Parlo, ad esempio, delle sostanze utilizzate nel settore tessile, così come in quello cosmetico, alimentare, della carta, in ambito medicale, militare e, in generale, in tutti i processi industriali, dove il contatto con acqua e oli era qualcosa da evitare. Può immaginare, quindi, come nel tempo l’utilizzo di questi materiali sia diventato sempre più diffuso.
Le ragioni per cui vengono chiamati forever chemicals – inquinanti eterni – risiedono nel fatto che queste molecole sono di sintesi, prodotte dall’uomo, e presentano un legame chimico tra carbonio e fluoro molto stabile. Il fluoro, essendo l’elemento più elettronegativo della tavola periodica, è l’atomo che con maggior forza attrae gli elettroni, anche quelli di altre specie vicine, formando legami molto stabili e fortemente polarizzati.
Questa stabilità si traduce, nei fatti, nell’impossibilità di trovare in natura sostanze capaci di decomporre questi composti. Come sa, la Terra ha circa 4 miliardi e mezzo di anni: in questo lunghissimo periodo, tutte le sostanze che si sono via via prodotte sono state soggette a processi di degradazione. Tuttavia, i prodotti fluorocarbonici, proprio perché sviluppati da poco tempo, appartengono a una categoria di sostanze di sintesi che in natura non trova alcun agente capace di degradarli. Inoltre, i possibili processi di trasformazione o degradazione industriale di queste molecole possono rappresentare un’ulteriore fonte di sottoprodotti stabili e pericolosi. La conseguenza è che, una volta dispersi nell’ambiente, si accumulano permanendo a lungo negli anni e sono stati associati con diverse patologie negli esseri umani, tra i quali danni epatici, tumori, indebolimento del sistema immunitario.
CP: È possibile limitare l’impatto di queste sostanze o trovare delle alternative che svolgano le medesime funzioni?
GR: Limitarne l’impatto è impossibile, nel senso che, una volta presenti, le conseguenze sono inevitabili.
Detto ciò, è importante sottolineare che non tutti i composti contenenti fluoro sono altrettanto pericolosi. Ad esempio, esistono sostanze contenenti fluoro, come il politetrafluoroetilene, per le quali gli studi non hanno mai evidenziato pericolosità. I composti più pericolosi, invece, sono quelli contenenti PFOS (perfluorottano sulfonato) e PFOA (acido perfluoroottanoico), che sono i principali responsabili dei problemi di contaminazione. Queste sostanze, dove si cerca l’idrorepellenza, sono sostituibili in tutto e per tutto. Infatti, l’abbassamento dell’energia superficiale dei materiali trattati può essere ottenuto con catene idrocarburiche o siliconi, alternative di facile reperibilità in diversi settori.
I problemi, però, nascono quando si cerca non solo l’idrorepellenza, ma anche l’oleorepellenza. Lei sa che sono due cose diverse. La repellenza all’acqua può essere facilmente ottenuta con i sostituti appena citati, ma per quella agli oli è tutta un’altra questione. L’oleorepellenza è al momento impossibile da replicare con sostituti in grado di produrre gli stessi effetti.
Gli studi sono in corso, e non è detto che in futuro non si trovino alternative valide, ma al momento è una sostituzione che non è raggiungibile in maniera adeguata.
CP: La presenza di queste sostanze richiede strumentazioni specifiche per essere rilevata. Che tipo di analisi bisogna fare? E a livello istituzionale, chi bisogna coinvolgere?
GR: Certamente ci sono analisi specifiche per il riconoscimento di queste sostanze, che necessitano di apparecchiature dedicate per poter essere individuate. Non è possibile condurre tali analisi in laboratori non attrezzati: è necessario rivolgersi a laboratori riconosciuti, che abbiano a catalogo questo tipo di prove. Quindi, il mio consiglio è sempre quello di rivolgersi a centri specializzati, che dispongano di strumenti idonei al riconoscimento di questi composti.
CP: Mi ha fatto riflettere il rapporto di Greenpeace del 2023, sulla qualità delle acque degli acquedotti lombardi, dove è emerso che dalle analisi coinvolte tra il 2018 e il 2022 per rilevare la presenza di PFAS il 20 % è risultato positivo alla presenza di queste sostanze (circa 738 comuni). Specificando che non tutti i Comuni hanno fornito una corretta localizzazione dei prelievi. Da cosa dipende, secondo lei, questa scelta?
GR: Non sono informato sulle ragioni per le quali non tutti i Comuni hanno fornito le informazioni richieste. D’altra parte, queste sostanze non sono attualmente inserite tra i parametri da monitorare per legge nelle acque destinate al consumo umano. A breve però diventerà obbligatorio grazie al recepimento delle Direttiva comunitaria 2020/2184 con Decreto Legislativo n. 18 del 23 febbraio 2023.
È però interessante la sollecitazione fornita da questo rapporto. Greenpeace, più di 10 anni fa, ha portato avanti una battaglia contro le sostanze pericolose applicate sui materiali tessili prodotti in Cina, andando a prelevare direttamente campioni dalle acque di scarico ed analizzandoli. Lei capisce che si è trattato di un’operazione sfidante dalla quale, a distanza di anni, si sono ottenuti risultati allora imprevedibili a garanzia del consumatore.
Ci tengo a specificare che il fluoro non è un elemento necessariamente dannoso. Oltre ad essere normalmente presente nelle giuste concentrazioni in tutti i dentrifici sotto forma di sali, negli Stati Uniti, dal 1945 è aggiunto nell’acqua potabile per prevenire le carie su bambini ed adulti in modo sicuro, come confermato dall’American Dental Association a seguito di migliaia di studi. Per le acque italiane non è stato necessario procedere con questa additivazione in quanto naturalmente ricche in fluoro in quantità sufficiente. Buono o meno, dipende dalla forma in cui è presente.
CP: Qual è la sua visione a lungo termine sul futuro della gestione di questi composti?
GR: L’Agenzia europea per le sostanze chimiche (ECHA) sta operando attentamente per proibire, tra le altre, l’utilizzo di tutte le sostanze chimiche organiche contenente fluoro che, in funzione della lunghezza della catena degli atomi di carbonio che le compongono, manifestano apertamente proprietà pericolose per la salute dell’uomo e dell’ambiente. Ad oggi, abbiamo una serie di sostanze già vietate a livello industriale, e questa procedura sta proseguendo in maniera serrata. Mi aspetto che, entro un massimo di 6-8 mesi, ci sarà una nuova legislazione che ridurrà ancora più drasticamente l’uso di queste sostanze in Europa.
Faccio però leva sul buon senso: noi compriamo prodotti anche da altri mercati, come il Far East, dove le regole che imponiamo sul territorio europeo – e che le aziende europee rispettano severamente – trovano invece maglie molto più larghe. Per questo motivo, oltre alla legislazione europea, è fondamentale avere stretti controlli sull’importazione, affinché non entrino nel nostro mercato prodotti contenenti sostanze potenzialmente pericolose.
Ma, chiaramente, molto dipende anche dall’approccio mentale del consumatore. È il consumatore che genera il mercato. Ad esempio, un recente studio ha evidenziato la presenza di PFAS sulle piste da sci. I PFAS sono, infatti, un additivo comune delle scioline ma, nonostante i timori riguardanti l’impiego in questo tipo prodotti, sono utilizzati per la loro capacità idrorepellente che accentua lo scorrimento dello sci sulla neve. La sciolina, una volta dispersa nella neve, viene assorbita dal terreno, entra nella catena alimentare o raggiunge le falde acquifere, contaminando l’acqua potabile che assumiamo. Iniziando a ridurre nel nostro piccolo l’uso di questi prodotti, anche l’ambiente ne potrà trarre giovamento.
CP: Cosa possiamo fare noi con le scelte di ogni giorno?
GR: Non serve essere ossessionati dal rischio del fluoro, ma nemmeno ignorarlo. Ad esempio, nel caso del rivestimento delle pentole antiaderenti contenente fluoro, realizzate nel rispetto delle normative vigenti, non si è mai constatata la sua pericolosità. Come per molte cose, è una questione culturale: bisogna trovare una via di mezzo tra la demonizzazione e un superficiale distacco, promuovendo una corretta informazione supportata da dati scientifici.