La specie umana ha smesso di prolungare l’aspettativa di vita. Alcuni scienziati di Chicago, Honolulu, Cambridge e Los Angeles hanno pubblicato lo scorso ottobre su Nature Aging un articolo dal titolo «L’implausibilità di un’estensione di vita radicale nell’uomo nel ventunesimo secolo». Grazie ai loro studi sull’aspettativa di vita alla nascita negli otto Paesi più longevi del mondo (Australia, Francia, Italia, Giappone, Corea del Sud, Spagna, Svezia e Svizzera) e ad Hong Kong e negli USA, hanno dimostrato che dopo un secolo di allungamento dell’aspettativa di vita massima ora questo si sta fermando.
Quindi, c’è effettivamente un tetto biologico che non possiamo superare, al di là dei miglioramenti delle condizioni generali di vita, quanto meno in Italia?
Un aumento millenario
L’aspettativa di vita nel corso del ventesimo secolo si è allungata considerevolmente. Fino alla metà del 1800 un essere umano poteva sperare di vivere fino a 20-50 anni in base alla condizione economica. Il numero è così basso perché al tempo c’erano pandemie, contagi, una scarsa igiene e un’assenza di farmaci e vaccini efficaci per curare e prevenire le infezioni. Nella prima metà del Novecento c’è stato un aumento dell’aspettativa di vita alla nascita, grazie a una miglior salute pubblica e a grandi cambiamenti e scoperte nel campo medico.
Nei due millenni precedenti, la lunghezza media della vita umana aumentava di un anno ogni due secoli trascorsi. Molto lentamente. Invece, da quando si è verificata quest’estensione di vita, ogni decennio si allunga di 3 anni: fattori determinanti sono sia la posizione geografica, sia lo sviluppo economico del Paese in cui si vive.
In questo studio hanno scoperto che la probabilità media di vivere fino a 100 anni è: 5.1% per le donne e 1.8% per gli uomini. Hong Kong in particolare detiene il primato, con un picco di 12.8% per le donne e il 4.4% degli uomini. Se consideriamo inoltre che c’è molta meno mortalità infantile, e l’età media si sposta sempre più in là, subentra un secondo fattore in gioco, che soprattutto a noi italiani non è nuovo: la popolazione sta invecchiando.
L’aspettativa di vita gioca un ruolo importante nelle dinamiche sociali, economiche e sanitarie del mondo. Una popolazione che invecchia è sì sintomo di una buona qualità di vita, ma anche di un sistema sanitario che dovrà stare attento alle patologie legate all’anzianità, di un sistema di infrastrutture che dovrà favorire determinate condizioni sociali e di un’economia che dovrà assicurare numerose pensioni.
Jeanne Calment: la donna più longeva della storia
Negli ultimi decenni, gli scienziati hanno studiato intensamente i limiti biologici della longevità umana. La conclusione è che esiste una durata massima intrinseca della vita, da alcuni stimata intorno ai 120 anni. Questo limite è stato ipotizzato basandosi sia su dati demografici che su osservazioni della biologia dell’invecchiamento umano, e prende il nome di “limite teorico della durata della vita”.
Jeanne Calment è considerata la persona più longeva mai documentata con i suoi 122 anni e 164 giorni. Il suo caso è la pietra di paragone per la longevità. Dal suo decesso nel 1997, nessun altro individuo ha raggiunto o superato la sua età. Questo dato alimenta la teoria che il corpo umano sia sottoposto a limiti biologici.
Alcuni studiosi sostengono che, anche se potessimo migliorare la qualità della vita fino ai 100 anni e oltre, superare i 120 potrebbe essere una barriera naturale. Le analisi di questo studio dimostrano che una seconda ondata di estensione radicale della vita, che porterebbe a un’aspettativa di vita alla nascita di 110 anni, necessiterebbe che almeno il 70% delle donne sopravvivesse fino ai 100 anni. La sopravvivenza fino a 122 anni come Jeanne Calment, invece, dovrebbe essere raggiunta dal 24% delle donne per osservare lo stesso allungamento.
I nostri limiti biologici sono diversi e sono causati da diversi fattori
Il primo è l’accorciamento dei telomeri, che sono le estremità dei cromosomi. Ogni volta che una cellula si riproduce, si accorciano fino a raggiungere una lunghezza “critica”. Così le cellule smettono di riprodursi ed entrano in uno stato senescente, o di invecchiamento. Più cellule senescenti abbiamo, più cellule non funzionanti abbiamo e di conseguenza i nostri tessuti fanno più fatica a rigenerarsi.
Questo si collega al secondo fattore, che è l’accumulo dei danni alle cellule. Man mano passa il tempo, più danni il nostro corpo accumula a livello molecolare, che non possono essere completamente riparati. Danno su danno, le cellule alterano il loro funzionamento e quello degli organi vitali che compongono. Più siamo giovani, meglio funzionano i meccanismi rigenerativi, sia quelli cardiovascolari sia quelli immunitari, quindi questi danni vengono più facilmente riparati.
Cosa ci potrebbe realmente aiutare?
Tecnologie come terapie con cellule staminali sono viste come strumenti con un enorme potenziale: alcuni scienziati credono infatti che, modificando i geni legati all’invecchiamento o rigenerando i tessuti danneggiati, si possa contrastare l’invecchiamento cellulare.
In realtà, ci sono diversi studi che supportano l’idea che il corpo umano sia programmato per invecchiare fino a un certo punto, e superare quel limite richiederebbe non solo tecnologie avanzate, ma anche una riscrittura delle leggi biologiche che attualmente regolano la nostra esistenza.
Per anni il limite della vecchiaia e della longevità sono stati una vera e propria sfida: possiamo vivere sempre più a lungo, ma quanto più a lungo possiamo spingerci? Forse, però, la domanda dovrebbe essere un’altra: quanto meglio possiamo vivere?
Ci sono diversi punti da attenzionare qui, quelli che si sottintendono in uno stile di vita sano: un’alimentazione bilanciata è uno degli esempi a cui pensare, e che può fare la differenza tra la salute e l’insorgenza di problemi articolari, patologie cardiovascolari e neurodegenerative. Non solo a lungo termine, ma anche nel breve: giorno per giorno si nota come l’energia che abbiamo venga gestita diversamente dal nostro corpo, come le abbuffate diminuiscano, e che il “siamo quello che mangiamo” non è solo un modo di dire.
Inoltre, l’attività fisica fa la differenza: non intendo la pratica di uno sport a livello agonistico per una vita, ma mi riferisco al movimento vero e proprio della nostra quotidianità. Scegliere di muoversi a piedi invece che in macchina, evitare di passare troppo tempo seduti, tenersi attivi con una corsa nel parco ogni tanto, o seguire con costanza degli allenamenti mirati e modellati sul nostro fisico e le nostre necessità, potrebbero davvero aiutare.
Non col fine ultimo di vivere il più possibile, ma per stare meglio con noi stessi ogni giorno.