“Le azioni umane non vanno derise, compiante o detestate: vanno comprese” scrisse Baruch Spinoza. In questi giorni di emergenza sanitaria, culturale ed economica, questa frase bisognerebbe tenerla bene a mente, perché è probabile che ognuno di noi sia stato protagonista o spettatore di un’azione insolita, dettata dal momento particolare. Ciascuno di questi gesti ha un senso per chi lo compie ed è semplicistico giudicare le scelte altrui, perché l’emergenza sa toccare corde della nostra psiche che hanno radici profonde.
Per approfondire il tema Coronavirus e provare a razionalizzare i giorni a venire abbiamo intervistato Roberta Villa. Giornalista scientifica specializzata sui temi della salute, laureata in medicina e chirurgia, assegnista di ricerca a Ca’ Foscari e collaboratrice del progetto europeo Quest per la comunicazione della scienza in Europa, Villa ha pubblicato il libro “Vaccini, il diritto di (NON) avere paura” (Il Pensiero Scientifico, 2019).
GB: Nella notte tra il 7 e l’8 marzo è stato confermato il decreto che isola la Lombardia e 14 province. Come dobbiamo leggere questa decisione, e tutte le precedenti, prese da parte del Governo?
RV: Sono provvedimenti che vanno letti alla luce della serietà della situazione che sta emergendo negli ospedali lombardi. Ovviamente non possono essere fatti rispettare con l’esercito, forze di polizia o procedure di controllo individuale come quelle messe in atto in Cina. Tutto questo può funzionare solo con la collaborazione dei cittadini e con la consapevolezza dell’importanza di questi provvedimenti. L’azione più importante, comunque, resta il comportamento individuale: l’autoisolamento quando si ha dei sintomi e, in generale, l’evitare le occasioni di aggregazione. È chiaro che se si organizza una festa in casa con cento persone per far fronte alla chiusura delle discoteche, tutte queste misure non hanno più senso. Quello che conta è chiaramente rendersi conto che in questo momento questa cosa è capitata, non si sa ancora bene perché, e in Lombardia e si sta bene o male reggendo botta. Se il virus dovesse dilagare, però, il carico sul Servizio Sanitario Nazionale di altre regioni sarebbe probabilmente devastante. Un aspetto su cui si può discutere un po’ di più è quello della chiusura delle scuole, ma per altre manifestazioni i provvedimenti servono tutti.
GB: Per la scuola, i dubbi sono legati al fatto che il provvedimento sia esteso a livello nazionale o proprio al concetto in sé?
RV: È la misura in sé ad essere molto controversa. Le prove di efficacia che noi abbiamo sono abbastanza limitate e si riferiscono alle esperienze passate di pandemia di influenza, soprattutto la spagnola del 1918. Gli studi ci mostrano che la chiusura delle scuole è tanto più efficace quanto più è precoce e prolungata. Questo secondo aspetto è la ragione per cui negli altri paesi in cui si ipotizzata la cosa, come in Gran Bretagna, si parla di una chiusura delle scuole direttamente di due mesi. Per di più, finora gli studi ci mostrano che i giovani sembrano essere meno colpiti da queste forme; non si sa se è perché hanno delle forme asintomatiche o poco sintomatiche o se in qualche modo sono immuni. A quel punto sarebbe ancora più inutile chiudere le scuole; c’è da dire, però, che questa logica non è tanto quella di impedire il contagio tra i bambini, ma di limitare tutto il traffico di maestri, professori, genitori che ci gira intorno. Queste sono decisioni che vengono prese in un contesto di massima incertezza: chi dice cose come “È dimostrato scientificamente che questa cosa funziona” mente, perché non è vero, chi dice “Ah no, non bisogna farlo perché non abbiamo le prove scientifiche che serva” fa un azzardo, perché comunque da qualche parte bisogna iniziare.
GB: A questo punto, quali sono secondo lei gli aspetti medici, psicologici, sociali, organizzativi che sono troppo, o troppo poco, considerati?
RV: In generale, l’Italia ha avuto un approccio diverso da quello degli altri paesi europei e da quello che raccomandava l’Organizzazione Mondiale della Sanità. Ci siamo concentrati più sulla protezione, sul porre delle barriere, piuttosto che sulla rapida individuazione dei casi. Siamo stati l’unico paese europeo, per esempio, a chiudere i voli o a creare le zone rosse. In altri paesi è prevalsa l’indicazione di fare un più attento contact racing, cioè di andare a individuare in maniera più rapida le persone positive. Noi abbiamo lo svantaggio di non avere avuto un paziente 0; comunque, per ora, si può dire che è tutto molto concentrato nelle zone rosse, non è che il virus stia dilagando così ampiamente.
GB: Le zone rosse, a suo parere, servono davvero?
RV: Come per la chiusura delle scuole, trovo immorale giudicare queste scelte in momenti così difficili. Non ci sono certezze ed è ovvio che ogni scelta abbia degli effetti positivi o negativi. Chiunque deve farsi carico di queste decisioni sicuramente paga qualche effetto indesiderato ma nessuno può dire cosa sarebbe successo se queste misure non fossero state prese. Io, forse, avrei coordinato meglio la comunicazione, dando ai cittadini un maggiore senso di conforto, non alimentando la sensazione di essere recintati nel paese con i militari sulle strade ma fornendo più assistenza e coraggio. La scelta in sé, però, in questo momento di incertezza, non è giudicabile.
GB: Come valuta quanto fatto nei primi giorni in termini di misure di contenimento, come per esempio la misurazione della temperatura corporea negli aeroporti?
RV: Inizialmente l’Italia è stata la prima a chiudere i voli poi, quando ci si è resi conto che comunque le persone arrivavano tramite scambi intermedi, è stata l’unica a misurare la temperatura negli aeroporti. Secondo me questa seconda misura ha avuto ben poco senso, perché in pieno periodo influenzale era davvero difficile discriminare chi avesse un po’ di febbre per un raffreddore e chi, invece, fosse infetto da COVID-19. Tant’è che su tutti i controlli effettuati in Italia e negli Stati Uniti, che è l’altro paese che ha preso questa misura, non è stato individuato un solo portatore di COVID-19. Questa cosa ha diversi effetti collaterali negativi, tra cui lo spreco delle risorse come medici e infermieri, che sicuramente sarebbero stati più utili in ospedale.
GB: In Germania, il ministro della sanità Jens Spahn definisce questa epidemia una “pandemia”, mentre l’Organizzazione Mondiale della Sanità nega che lo sia. Da che parte sta la verità? Perché?
RV: Il ministro tedesco non ha nessun titolo per dire che c’è una pandemia perché solo Tedros Adhanom, il direttore generale dell’OMS, può decretarla. Che ci sia un potenziale pandemico può essere ma, fino ad oggi, sembra che si riesca abbastanza a contenerla. Anche in Italia il numero di contagi è vero che sia aumentato, però in modo poco distribuito. Non c’è stato il dilagamento che si poteva temere inizialmente e, quindi, si può parlare di trasmissione locale: i casi che arrivano in altre regioni d’Italia sono riconducibili alla Lombardia. Finché non ci sono diverse trasmissioni diffuse nella popolazione in almeno tre aree dell’OMS, non si può parlare di pandemia. Il rischio, come dice il dottor Tedros stesso, è alto ma è importante non tergiversare e aspettare con cautela le sue indicazioni, perché la pandemia ha tutta una serie di implicazioni politiche ed economiche. Ci sono, per esempio, tutta una serie di obbligazioni che scattano alla dichiarazione di una pandemia. Si tratta di interessi in gioco e, se si gioca male la carta della pandemia, dichiarandola per paura o in maniera inappropriata, l’impatto potrebbe essere gravissimo.
GB: Ceppo cinese, ceppo lombardo, ceppo tedesco… riusciamo a mettere un po’ di ordine?
RV: Innanzi tutto, è bene dire che con questo virus il livello di rischio individuale è abbastanza basso ma quello di sanità pubblica è altissimo: se un giovane, che probabilmente non avrebbe bisogno di un’ospedalizzazione con il COVID-19, facesse un incidente in moto in questi giorni, in ospedale non avrebbe probabilmente le cure e attenzioni necessarie, perché la situazione è molto critica. L’impatto lo misureremo non solo sulla mortalità da COVID-19 ma su tutto il resto della salute. Per quanto riguarda i ceppi, sgombriamo il terreno dalle bufale che circolano: il virus è uno solo, quello isolato per la prima volta a Wuhan. Dopo di che, com’è normale, ci sono state delle mutazioni, per cui oggi gli scienziati studiano come si è evoluto, come è viaggiato, da quanto tempo è in Italia.
GB: Quali sono le prospettive future riguardo al Coronavirus? Si prevede una naturale “ritirata” del Virus o si deve aspettare il vaccino?
RV: Non si può prevedere il futuro, ma oggi come oggi la probabilità che nel giro di un mese si sia risolto tutto è molto bassa. Può darsi che con l’estate rientri un po’ la situazione: se fa come un virus influenzale, durante l’estate circola sottotraccia e provoca pochi casi, ma poi tornerebbe con il tornare del freddo. C’è da dire però che non sappiamo come il COVID-19 si comporti con il caldo, per cui sono tutte supposizioni. Per quanto riguarda il vaccino io mi dissocio da quanti dichiarano che arriverà in nove mesi o un anno perché non lo possiamo sapere: ci sono almeno sei laboratori in giro per il mondo che stanno lavorando. Le tecniche per la produzione di vaccini sono enormemente avanzate negli ultimi anni, abbiamo buone speranze di averlo entro in tempi utili ma ci sono anche un sacco di virus contro i quali non riusciamo a fare un vaccino. Non è assolutamente detto che ci si riesca, che funzioni e che sia sicuro. Se riusciremo ad averlo, esso servirà nel caso in cui il COVID-19 si assestasse e continuasse a circolare come virus influenzale, sicuramente non per rispondere a questa singola emergenza.