Non sappiamo precisamente come la chiamavano i Romani, che ne furono grandi estimatori, o i Galli prima di loro, ma almeno da quattro secoli prende il nome dal piccolo paese dove si estrae, Zandobbio, vicino a Trescore Balneario. E non sappiamo nemmeno quale dei due straordinari doni della natura i Romani considerassero più prezioso: le sorgenti termali dalle benefiche proprietà terapeutiche o le cave di “marmo” bianchissimo, perfetto per le sculture e capace di durare inalterato nel tempo? Resta il fatto che Zandobbio, un piccolo centro che oggi conta poco meno di 3000 abitanti, da sempre è indissolubilmente legato alla sua pietra, che da due millenni si ricerca, si lavora e si utilizza in loco ma anche nel resto del mondo: il “marmo” di Zandobbio.
Una pietra tanto eccezionale da essere non solo citata, ma anche minuziosamente descritta dall’architetto Scamozzi nel suo trattato «L’idea dell’architettura universale di Vincenzo Scamozzi – Architetto Veneto», pubblicato nel 1615. Nel volume vengono affrontati anche i temi della materia dell’architettura, tra i quali le pietre e i marmi giocano un ruolo fondamentale.
Una storia che attraversa i secoli
Nel capo VIII dedicato alle «Varie specie di pietre vive, delle quali si servono oltre all’Appennino e di molte forti che si adoperano per la Lombardia e qua d’intorno à Venetia», per Bergamo Scamozzi scrive così: «Vicino alla Città di Bergamo 8 miglia à Zandobio Villaggio alla collina vi sono le caue ne’ monti, che guardano verso Mattina d’alcune pietre molto nobili, essendo bianche, e di grana minuta, che tiene del marmorino; intanto che per la loro saldezza, e bellezza elle si conducono al finimento, e riceuono il lustro come il marmo, delle quali ne sono fatti molti ornamenti in Santa Maria, e la Capella, e Deposito di Bartolameo da Bergamo, che fù Generale della Serenissima Signoria, & al presente se ne fa il Palazzo publico di capo alla Piazza di quella Città, & anco si rinoua il Domo, ambe due secondo le nostre inuentioni, e disegni, & ordini fatti in quella Città: essendo à questo effetto stati chiamati dalla Magnifica Communità l’anno 1611. e l’vna, e l’altra opera di grand’importanza, oue interuengono colonne di 12 e più braccia (circa 8 metri, n.d.a.) tutte d’vn pezzo. Hanno parimente altre pietre forti di colore endeghino chiaro, ò come la Serena di Fiorenza, per non dir celeste, le quali non sono da paragonare alle sudette marmorine: di queste se ne seruono communemente nelle fabriche».
Già ai tempi dello Scamozzi quindi il valore e le caratteristiche del “marmo” di Zandobbio erano così riconosciute ed apprezzate da essere indicate in un trattato che si prefiggeva intenti universali. Allora, come oggi con le dovute contestualizzazioni, l’apprezzamento e l’interesse verso il “marmo” di Zandobbio si deve tanto alla lavorabilità e all’effetto estetico quanto alla qualità del giacimento e alla disponibilità anche per la produzione di elementi monolitici di grandi dimensioni come colonne e blocchi per sculture e statuaria.
La singolarità di questo materiale risiede soprattutto nella sua composizione, che dipende strettamente dalla sua origine. Il colore bianco con locali variazioni rosate o beige-grigio, la composizione dolomitica e la particolare storia geologica la rendono un vero e proprio unicum nel panorama delle pietre ornamentali, con qualche carattere in comune con il Botticino, “fratello” per età e contesto geologico.
Da un punto di vista genetico, però, ci sono delle differenze. Il “marmo” di Zandobbio è una roccia sedimentaria, una dolomia cristallina bianco rosata di età giurassica formatasi in un ambiente marino molto particolare e circoscritto alla sola zona di Zandobbio, rimineralizzata da fluidi idrotermali e conservata al nucleo di una delle pieghe formate dall’orogenesi alpina. Viene spesso chiamata “marmo” di Zandobbio perché da un punto di vista commerciale appartiene alla categoria dei marmi, grazie alla sua perfetta lucidabilità, anche se geneticamente non ha nulla a che fare con i marmi in senso scientifico. Questa pietra ha grana finissima e spesso presenta una tessitura brecciata, riconoscibile da un singolare effetto craklè: ciononostante è molto compatto e durevole.
Il colore principale è bianco candido, con tonalità che sfumano al rosa, al grigio, all’avorio. Se ne conoscono infatti tre varietà cromatiche, a cui si aggiunge quella a “a macchia di vino”, caratterizzata da tonalità rosa carico che possono arrivare ad un porpora sbiadito e che ricordano per colore e forma proprio il segno lasciato sulla tovaglia bianca da un bicchiere di vino rosso rovesciato per sbaglio.
Le opere a Bergamo
La sua fortuna come pietra ornamentale deriva anche dalle proprietà tecniche e da una felice posizione che le altre pietre orobiche non hanno avuto. L’estrema vicinanza al tracciato della strada romana «Bergomum – Brixia», unita all’ottima durevolezza, alla lucidabilità e al colore bianco, ne hanno fatto infatti fin da tempi antichissimi, come si diceva, una delle pietre più impiegate e richieste per la realizzazione di lapidi, colonne, fontane, soglie, portali e molto altro. Il prestigio del “marmo” di Zandobbio ed il suo ruolo di status-symbol per manufatti celebrativi e decorativi ha attraversato i secoli. Venne scelto questo materiale per realizzare la fontana Contarini, la grande fontana con vasca ottagonale e sfingi che Alvise Contarini, podestà della Repubblica di Venezia, regalò alla cittadinanza nella seconda metà del XVIII secolo, congedandosi dal suo incarico a Bergamo, e che ancora oggi si trova al centro di Piazza Vecchia, nel cuore della Città Alta.
Un dono molto prezioso da parte del podestà e della Serenissima per l’estrema sua città di terraferma: la fontana, che ora ha funzione esclusivamente decorativa, era originariamente sia uno strategico approvvigionamento d’acqua per gli abitanti sia un monumento per abbellire la città. Il “marmo” di Zandobbio riveste anche la porta San Giacomo, la porta delle mura di Bergamo rivolta a ovest verso il confinante Stato di Milano, a conferma che per la Serenissima questo strumento fosse uno strumento per celebrare il potere della Repubblica e “abbagliare”, con il suo bianco splendore, il nemico, confondendolo e disorientandolo.
Fino al secondo dopoguerra, il “marmo” di Zandobbio conobbe un nuovo momento di grande diffusione, sia per il momento storico sia anche grazie ad ottimi scultori ed a una rinomata scuola di scalpellini, artigiani e artisti. Tra questi è d’obbligo ricordare Tobia Vescovi (1893 – 1978), abilissimo scultore cresciuto in mezzo al marmo della cava di famiglia, autore non solo delle sei statue allegoriche (agricoltura, artigianato, commercio, industria e i fiumi Serio e Brembo) collocate nel 1958 sulla facciata del palazzo della Biblioteca Mai, ma anche di numerose altre opere. Per una felice coincidenza, una parte delle sue affascinanti sculture sono in questi giorni e fino al 29 ottobre in mostra a Trescore, presso lo spazio espositivo «Le Stanze».
Accanto alle sculture, nel XX secolo il “marmo” di Zandobbio venne ampiamente utilizzato per rivestire importanti palazzi nella città di Bergamo, dalla «scamozziana» facciata della Biblioteca Mai a vari rivestimenti e decori degli edifici della Bergamo Moderna, tra i quali la Torre dei Caduti, la fontana-monumento dedicata a Antonio Locatelli, i portali e i paramenti a piano terra dei palazzi rivestiti in Ceppo, le fasce di raccordo delle palladiane delle pavimentazioni sotto i portici. Singolare e “assoluto” è l’impiego come rivestimento verticale, dei pilastri e nei controsoffitti del palazzo della Casa della Libertà, dove l’architetto Alziro Bergonzo lo sceglie negli anni Trenta per distinguere l’edificio dai circostanti, allora quasi tutti rivestiti di Ceppo, forse anche per proporre un’alternativa orobica ai due litotipi bianchi diffusamente impiegati in quel periodo nell’edilizia pubblica, cioè Marmo di Carrara e Travertino. Senza dimenticare che un decennio prima Piacentini stesso aveva utilizzato il “marmo” di Zandobbio per il rivestimento del monumento ai caduti a Bolzano.
L’utilizzo moderno
Fino alla prima metà del secolo scorso si sfruttavano artigianalmente numerosi siti estrattivi, mentre dal secondo dopoguerra in poi, pure a causa dell’intensa fatturazione della roccia, l’estrazione si è contratta sensibilmente fino ad estinguersi, in favore dell’estrazione di altri prodotti, tuttavia meno nobili, come granulati per l’edilizia e per l’industria, questi ultimi particolarmente pregiati in virtù della rara composizione dolomitica pressoché pura.
A partire dal 2004, è stata però riattivata la storica ex «Cava Vescovi», in località Selva di Zandobbio, dove, dal fronte cava opportunamente preparato con mine, si estraggono a cielo aperto i blocchi di “marmo” di Zandobbio con filo diamantato. Dai blocchi da telaio si ricavano lastre di grande formato e manufatti a massello.
La pietra si presta ad essere lavorata sia con finiture lucide, anticate, spazzolate per interni, oppure con finiture rustiche tradizionali come la bocciardatura, la sabbiatura, la spuntatura per esterni, ma anche innovative come finiture scolpite ad idrogetto. Grazie al cromatismo ed alla tessitura compatta a grana fine e omogenea, la scultura resta la lavorazione più caratteristica fin dalle origini ad oggi. Il “marmo” di Zandobbio si utilizza nell’architettura contemporanea per rivestimenti verticali ed a pavimento, interni ed esterni, ma anche, grazie all’attività dedicata dall’azienda, viene frequentemente proposto per la realizzazione di oggetti di design, complementi d’arredo, sculture contemporanee: la sua storia continua nel solco tracciato da millenni.