Un processo così rinnovabile che più rinnovabile non si può. «La fotosintesi usa come materia prima molecole molto semplici, l’acqua e l’anidride carbonica, totalmente rinnovabili e distribuite su tutto il Pianeta. Queste molecole sono attivate dalla luce solare, anch’essa rinnovabile»: così Marcella Bonchio, professoressa di Chimica organica avanzata e prorettrice alla ricerca scientifica dell’Università di Padova, riassume la straordinaria semplicità (e insieme complessità) della fotosintesi clorofilliana.
Un processo chimico che da sempre affascina studiosi delle più diverse discipline: «i biologi, che studiano gli organi che la operano; i fisici e gli ingegneri, per la trasformazione dell’energia; i chimici, perché stimola la capacità di creare nuovi sistemi che funzionino in un modo simile». Lo impariamo per la prima volta alla scuola elementare, ma ad osservarlo da vicino si scopre che può rivelare innumerevoli lati nascosti.
Anche, incredibilmente, una possibile via di fuga dalla crisi energetica che stiamo vivendo, acuita dal cambiamento degli equilibri geopolitici e destinata a peggiorare nel tempo a causa della minaccia del cambiamento climatico. Venerdì 14 ottobre alle 10.30 presso la tensostruttura di «Bergamo NXT Station» sarà proprio Marcella Bonchio a raccontare per «BergamoScienza» come alcuni ricercatori stiano provando a sviluppare materiali fotosintetici e dispositivi in grado di produrre combustibili in modo completamente pulito, utilizzando l’energia solare e assorbendo anidride carbonica.
Bonchio ha realizzato in laboratorio un sistema chimico che riproduce la scissione dell’acqua in ossigeno e idrogeno, che le ha meritato quest’anno la Medaglia d’oro Angelo Mangini, assegnata a uno studioso che abbia conseguito risultati di particolare interesse scientifico nell’ambito della chimica organica meccanicistica e teorica. Per questo stesso progetto era risultata vincitrice nel 2021 insieme a Pierre Joliot e Markus Antonietti del premio «Lombardia è ricerca», promosso da Regione Lombardia in partnership con il Corriere della Sera e assegnato da una giuria di 15 scienziati italiani.
L’intervento di Bonchio si inserisce nel filone «Parliamo di scienza» di «BergamoScienza», il primo festival di divulgazione scientifica nato in Italia che taglia quest’anno il traguardo della ventesima edizione. Ad oggi il festival conta 32 premi Nobel ospitati, circa 2,4 milioni di presenze in 19 edizioni, quasi 40.000 volontari coinvolti e oltre 400 scuole protagoniste.
In questo contesto Bonchio spiegherà come si può riprodurre artificialmente i meccanismi della fotosintesi naturale. Quest’ultima consiste, nelle piante, nell’utilizzo dell’energia solare per produrre autonomamente composti per il proprio sostentamento. A differenza di quanto si potrebbe pensare, spiega Bonchio, «il processo della fotosintesi naturale non è così efficiente. La conversione della luce solare nel nutrimento ad alta energia per gli esseri viventi è un processo molto difficile e molto costoso dal punto di vista energetico, però è quello che ha reso possibile lo svolgersi della nostra vita sulla Terra ed è quindi il migliore strumento che la natura ci ha messo a disposizione».
Ma come funziona? «L’architettura naturale della fotosintesi», spiega, «è basata sul funzionamento combinato di due fotosistemi, che gli scienziati hanno chiamato fotosistema II e fotosistema I», in quest’ordine. E continua: «il fotosistema II agisce sulla molecola di acqua: estraendone gli elettroni e i protoni e rompendo i legami molto forti della molecola di acqua. Il processo è molto difficile e richiede molta energia. Protoni ed elettroni sono quindi trasferiti al fotosistema I che ricombina protoni ed elettroni, in un processo molto più facile, che sintetizza una forma di idrogeno, tecnicamente idruri, che verranno poi utilizzati per trasformare l’anidride carbonica in zuccheri».
È proprio quest’architettura a due componenti che si cerca di riprodurre in laboratorio, nel tentativo di creare una struttura composta da «un fotosistema sintetico che si occupi di ossidazione e uno che si occupi di riduzione, entrambi connessi l’uno all’altro. Questo sistema si può disegnare sfruttando il concetto delle celle, dispositivi elettrochimici che connettono tra di loro due elettrodi: uno si occupa di ossidazione, l’altro di riduzione».
Qualcosa di simile già esiste: Bonchio porta l’esempio degli elettrolizzatori commerciali, che producono idrogeno dall’acqua. Il problema riscontrato in laboratorio è «trovare materiali con una composizione tale che possa funzionare in questo tipo di celle e che allo stesso tempo siano in grado di sfruttare l’energia solare per funzionare».
Dispositivi che sfruttano l’energia solare per funzionare sono per esempio i pannelli fotovoltaici, che trasformano la luce solare in energia elettrica e che hanno il pregio di essere molto robusti e di non aver bisogno di grande manutenzione. «La fotosintesi», aggiunge però Bonchio, «ci dà una sfida più alta: ingegnerizzare un dispositivo che catturi l’energia solare e faccia fotosintesi, cioè costruisca nuove molecole ad alta energia, nuovi combustibili che potremo usare al posto dei combustibili fossili. È una sfida che molti laboratori nel mondo stanno affrontando».
I risultati ottenuti da Bonchio si inseriscono in una delle fasi più delicate della fotosintesi, quella della scissione dell’acqua in ossigeno e idrogeno. Alla sua scoperta si intersecano quelle degli altri laboratori e ricerche portate avanti nel mondo. Una volta sviluppata interamente e ottimizzata, la tecnologia di fotosintesi artificiale aprirà le porte a possibilità rivoluzionarie: «Modificando e regolando i materiali al catodo e abbinandoli ad acqua, si può ottenere idrogeno verde, generato da acqua e luce solare; ridurre l’anidride carbonica, fissandola, producendo combustibili solari e riportandola in circolo nella produzione di energia e sintetizzare le molecole di cui abbiamo bisogno: lipidi, vitamine e molto altro».
Per raggiungere questo obiettivo, bisogna ancora superare alcune criticità. La maggiore è la fragilità intrinseca della membrana fotosintetica, che «viene prodotta dalla foglia e risintetizzata ogni mezz’ora o un’ora, perché la fatica richiesta in questo processo è talmente intensa che la foglia sacrifica le sue stesse strutture portanti. Inoltre, le clorofille sono facilmente aggredibili lungo l’intero processo di fotosintesi, aggiungendo un ulteriore grado di fragilità».
«Se dobbiamo pensare a un dispositivo totalmente artificiale che imiti la fotosintesi, questo deve essere molto più robusto dell’equivalente naturale, perché non potremmo ripararlo ciclicamente. Inoltre, avremo bisogno di integrare materiali che possano assorbire tutto lo spettro della luce». Manca quindi ancora qualche tassello prima di vedere risultati nella nostra vita di tutti i giorni. «Quando potremo vedere applicata la fotosintesi artificiale, dipende moltissimo dal progresso delle ricerche in corso. E non solo: dipenderà anche dagli investimenti destinati a questo settore di ricerca e dalla possibilità di cercare un’integrazione con i dispositivi esistenti». I progressi, nella ricerca, sono tangibili. E fanno sperare in uno sviluppo accelerato. Resta solo da augurarsi un continuo appoggio da parte di enti e istituzioni in termini di finanziamento.