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La scienza della fotografia. Le invenzioni che hanno permesso di catturare la luce, dall’eliografia alla fotografia digitale.

Articolo. La fotografia, nata dall’osservazione della luce nella camera oscura, è frutto di un lungo cammino scientifico. Dagli esperimenti di Niépce e Daguerre con alogenuri d’argento, alla pellicola a colori, fino ai sensori digitali moderni, ha trasformato la luce in immagini eterne.

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Qualche giorno fa, mentre passeggiavo lungo un viale alberato fuori città, ho alzato gli occhi e mi sono messo ad osservare le chiome rosse degli aceri. Era una giornata soleggiata e la vista delle variopinte foglie sullo sfondo del cielo blu mi ha fatto scattare l’istintiva necessità di sfilare lo smartphone dalla tasca e scattare una fotografia.

In pochi istanti l’immagine è apparsa sullo schermo e ora si conserva sotto forma di dati digitali. La fotografia è colorata, nitida, ricca di dettagli e subito disponibile per essere condivisa o dimenticata per sempre (come il 90% delle fotografie che scattiamo con i nostri telefoni). Insomma, è stato facile. Cosa direbbero Niépce e Daguerre vedendo quanti passi ha fatto la loro creazione? Chissà.
Questo pensiero mi offre lo spunto per parlarvi di fotografia, raccontandovi come il processo di fissare la luce su un supporto si sia evoluto nel corso della storia.

Il fenomeno ottico alla base della fotografia fu osservato nell’antichità dal filosofo greco Aristotele e successivamente dallo scienziato e matematico arabo Alhazen. Entrambi notarono che praticando un piccolo foro nella parete di una camera buia, la luce che permeava, proiettava un’immagine sulla parete opposta. Questa tecnica prese il nome di camera oscura e venne usata, ad esempio, per studiare le eclissi solari e proiettare e riprodurre fedelmente paesaggi con tecniche pittoriche. Tra i suoi utilizzatori ci furono diversi pittori rinascimentali, tra cui Raffaello. La camera oscura ricevette diversi miglioramenti nel corso dei secoli e anche Leonardo da Vinci ci mise mano introducendo una lente che migliorava la proiezione dell’immagine. L’idea di catturare le immagini che la camera oscura proiettava eluse tuttavia gli studiosi per secoli prima di essere concretizzata.

Un passo chiave fu la scoperta di composti chimici che potevano subire reazioni fotochimiche, ovvero un particolare tipo di reazione chimica che converte uno o più reagenti in prodotti grazie all’energia fornita dalla radiazione elettromagnetica (luce visibile, raggi UV, raggi X). I primi esperimenti in tal senso vennero fatti utilizzando alogenuri d’argento, ottenuti dalla reazione tra il nitrato d’argento e un composto alogenato contenete cloro, bromo o iodio. Il funzionamento è piuttosto semplice: si prepara una soluzione di un alogenuro di argento e con essa si bagna un supporto (es. un pezzo di carta). Una volta asciutto, quando è esposto alla luce, l’alogenuro d’argento subisce la reazione fotochimica di dissociazione che libera l’argento metallico. Inserendo questo film sul fondo di una camera oscura è possibile catturare un’immagine, ottenendone il negativo: le zone che ricevono più luce saranno più scure e viceversa.

Purtroppo, la nostra esposizione non può essere incorniciata in questo stato non trattato, altrimenti in poco tempo sbiadirebbe completamente. Al sopracitato Niépce questo non piaceva, quindi dopo diversi tentativi trovò un particolare composto noto come bitume di Giudea che, disperso in olio di lavanda e applicato su un supporto, è in grado di sviluppare un positivo: il bitume dunque si fissa indurendosi sulle zone illuminate. Il bitume non reagito viene lavato e il resto dell’immagine viene annerito con vapori di iodio. Seguendo questa procedura Niépce preparò un film, lo introdusse in una piccola camera oscura e lo lasciò 8 ore davanti alla finestra della sua casa di famiglia a Saint Loup de Varennes regalando all’umanità nel 1827 la prima eliografia intitolata: «Point de vue du Gras».

Daguerre, che collaborò con Niépce, prosegui gli studi dopo la prematura scomparsa di quest’ultimo e continuò a perfezionare la tecnica producendo una versione migliorata basata sull’uso dello ioduro d’argento. Questa invenzione destò interesse e meraviglia in tutto il mondo, innescando una corsa allo sviluppo di questa nuova tecnologia: la fotografia.

Facciamo un salto di 64 anni, è il 1891 e negli States, l’azienda Kodak mette in commercio la fotocamera Kodak n°1 e il suo rullino fotografico avvolto su supporto flessibile. L’evoluzione della macchina fotografica, delle lenti e della pellicola fotografica rendono accessibile la fotografia al grande pubblico. Il mondo comincia ad immortalare gli attimi della vita in bianco e nero.

Tutto cambia tra il 1935 e 1936 quando nel paese di Wolfen in Germania, l’azienda Agfa produce la prima pellicola a colori grazie al lavoro dei chimici Gustav Wilmanns e Wilhelm Schneider e del fisico e chimico John Eggert.

La pellicola fotografica moderna a colori si basa ancora sulle reazioni fotochimiche degli alogenuri d’argento: il materiale sensibile alla luce, bromuro (AgBr) o cloruro d’argento (AgCl) sotto forma di micro-cristalli, è sospeso in una sospensione colloidale insieme a un pigmento che rende ogniuno di tre strati sensibili ai colori verde, blu e rosso. La sensibilità alla luce di una pellicola dipenderà quindi dalla concentrazione e morfologia dei cristalli, che ne determinerà il valore di ISO. Questi tre strati colorati sono contenuti tra ulteriori strati che hanno funzione di proteggere il film, evitare riflessioni interne e fornire supporto fisico. Nel momento dello scatto, all’apertura dell’otturatore, ogni strato viene scurito in proporzione alla quantità di luce del colore corrispondente al quale è esposto. La reazione di dissociazione dell’alogenuro d’argento avviene quindi in magnitudo differente per ogni strato sensibile ad ogniuno dei tre colori.

Il negativo così ottenuto sarà trattato chimicamente per sviluppare e fissare l’immagine finale a colori. Il processo di sviluppo delle pellicole fotografiche viene condotto nelle camere scure rese celebri dai più disparati film e serie tv crime, al lume della caratteristica luce rossa, necessaria per non danneggiare i film.

Nonostante il recente ritorno in voga della fotografia analogica, similmente alla riscoperta della musica su vinile, la fotografia oggi è digitale. Che si tratti di uno smartphone o di una fotocamera DSLR professionale, la luce viene catturata da un sensore.

Il sensore di una macchina fotografica è un supporto rettangolare o quadrato di silicio, sul quale sono presenti le unità fisiche che raccolgono la luce: i fotodiodi. Ad esempio, una reflex da 24 Megapixel avrà 24 milioni di fotodiodi attivi. Ogni fotodiodo è in grado di misurare la quantità di luce a cui è esposto sfruttando l’effetto fotoelettrico, un fenomeno descritto dalla meccanica quantistica, ovvero l’emissione di elettroni da parte di un materiale colpito da radiazione elettromagnetica. Grazie a questo effetto viene prodotta una carica elettrica proporzionale alla luce incidente. Il circuito elettronico della macchina fotografica registra questo valore per ogni fotodiodo, salvandoli sotto forma di dati digitali che compongono l’immagine detti picture element o pixel.

Lo so, è complesso ma seguitemi ancora un attimo. Questo sistema per natura non è quindi sensibile al colore, ma restituisce un’immagine in bianco e nero. Per ottenere l’immagine a colori il sensore è coperto da un filtro a scacchiera detto matrice Bayer (da Bryce Bayer ricercatore presso Kodak che lo inventò).

Ogni unità della matrice è composta da due pixel verdi, un pixel blu e un pixel rosso. Questa combinazione riproduce meglio i colori, dato che l’occhio umano risulta più sensibile al verde. A questo punto il software della macchina fotografica sa che ogni pixel è abbinato ad uno dei tre colori fondamentali e tramite il processo di demosaicizzazione è in grado di assegnare il corretto colore ad ogni pixel in funzione dei pixel adiacenti.

La prima volta che ho approfondito questo argomento sono rimasto incredulo da quanto in profondità si possa andare partendo da una semplice fotografia. Partendo da uno scatto, nell’arco di poco tempo è possibile arrivare a scomodare i massimi sistemi della fisica. Spero che questa breve panoramica sulla storia della fotografia abbia stuzzicato il vostro appetito scientifico, dimostrando come l’ingegno umano sia in grado, infine, di vincere sfide incredibili come quella di imprigionare la luce in un oggetto fruibile per sempre.

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