«La Rava e la Fava», ovvero raccontare qualcosa per filo e per segno, magari eccedendo nei particolari, che però a volte sono più interessanti del tutto. Si chiama così, con un bel gioco di parole che in realtà nasconde una sorta di acronimo (cioè «La Rava e la Fava – ConseRvAzione, VAlorizzazione e caratterizzazione morFologicA e genetica di VArietà ortive “minori” locali») il progetto dell’Università degli Studi di Pavia, che coinvolge l’Università degli Studi di Milano e l’Orto Botanico di Bergamo ‘Lorenzo Rota’, sulla conservazione della biodiversità di specie orticole minori. Coinvolte in quella che viene definita «deriva genetica» (cioè l’impoverimento del patrimonio genetico di una specie) che mette a rischio l’esistenza di piante alimentari antiche e poco diffuse.
«È un progetto che si focalizza sulla biodiversità, però di origine agricola, quindi non è una biodiversità naturale, ma è creata dall’uomo attraverso l’agricoltura» spiega Graziano Rossi, Professore di botanica ambientale e applicata nonché Presidente del nuovo corso di laurea in agraria «Agri-food sustainability» dell’Università di Pavia. «Cerchiamo piante nate da semi che non troviamo in commercio, tradizionali di famiglia e a diffusione locale; piante che sono a rischio elevato di scomparsa, essendo mantenute solo a livello individuale. E ci vuole un niente perché spariscano, basta non seminarle un anno o non avere produzione».
Un lavoro investigativo
La ricerca viene finanziata e sostenuta dal «Programma di Sviluppo Rurale 2014-2020» di Regione Lombardia e ha una durata di due anni. Queste antiche piante orticole hanno una storia locale legata alla tradizione e i semi che sono oggetto della ricerca riguardano gli ultimi 100-150 anni. «L’idea – continua il professor Graziano Rossi – è nata dall’esigenza di capire cosa c’è in Lombardia per quanto riguarda le antiche varietà di ortaggi. All’Università di Pavia sviluppiamo da anni dei progetti legati ai fagioli, alle zucche, al mais e ad altre varietà alimentari, ma ci siamo accorti che mancavano delle varietà di ortaggi e anche delle specie: ad esempio non ci eravamo mai occupati delle varietà meno diffuse dei pomodori, ma anche di legumi come le fave, di cui si conosceva l’esistenza in Lombardia, ma senza che ci fossero delle grandi coltivazioni».
«La perdita di biodiversità delle varietà orticole locali – aggiunge Francesco Zonca, curatore dell’Orto Botanico di Bergamo – è arrivata ad un livello impressionante, si stima che in alcune aree europee l’erosione genetica si attesti al 70%, nel Nord Italia è arrivata al 90% negli ultimi 50 anni. “La Rava e la Fava” ha anche lo scopo di contrastare questa perdita sul nostro territorio, non solo valorizzando la biodiversità esistente ma anche caratterizzando dal punto di vista morfologico e genetico le varietà orticole, per capire quanto effettivamente sono antiche». Quello de «La Rava e la Fava» è quasi un lavoro investigativo, che comincia a dare dei risultati. «Nella Valle della Biodiversità, sezione di Astino dell’Orto Botanico – racconta Zonca – ci sono delle cultivar (in orticoltura, nome con cui si indicano le varietà colturali di una specie, ndr) lombarde di pomodori, quest’anno noi ne abbiamo coltivate cinquanta da mostrare alle persone, sono utili anche per le indagini genetiche svolte dall’Università di Milano, per capire meglio le relazioni tra i “nostri” pomodori e quelli di origine sudamericana».
Gli fa eco il Direttore dell’Orto Botanico di Bergamo Gabriele Rinaldi: «la Valle della Biodiversità ad Astino è una vetrina ideale per far conoscere al pubblico il grande tema dell’agrobiodiversità che trova nelle varietà minori un’espressione preziosa. I visitatori, circa 20.000 nel solo 2022, scoprono questo patrimonio e possono incuriosirsi, mentre i custodi dei semi possono contare su una vetrina museale per raccontare le storie che hanno consentito di tramandare fino a noi questo patrimonio. In parallelo la ricerca scientifica fa emergere le specificità agronomiche e genetiche a vantaggio della società. Il progetto, quindi, è anche una chiamata a raccolta di persone che desiderano essere protagonisti di una svolta culturale che freni la perdita di agrobiodiversità e ponga maggiore attenzione a ciò che finisce nei nostri piatti, a partire dai cibi di origine vegetale».
Oltre all’Orto Botanico di Bergamo «i pomodori vengono coltivati anche nei due Orti Botanici dell’Università di Milano, a Brera e in Città Studi», specifica Zonca. Ci sono poi sei aziende agricole che coltivano in modo sperimentale queste piante «perché l’intento è quello di conservarle, studiarle, conoscerle e descriverle. Passaggi fondamentali per poterle iscrivere all’interno dei registri nazionali, che poi danno la possibilità ad un’azienda agricola di fare entrare queste piante nelle loro coltivazioni». A Bergamo sono due le aziende coinvolte, le altre sono due a Pavia, una a Milano e una a Crema. «Tutte hanno delle coltivazioni sperimentali che, come quella dell’Orto Botanico, servono per riprodurre i semi in purezza che, conservati all’interno della “Banca del Germoplasma Vegetale” dell’Università di Pavia, rappresentano una risorsa preziosa per altre aziende agricole interessate a questo tema».
Una Banca dei semi a Pavia
Una parte essenziale del progetto viene infatti svolta dalla «Banca del Germoplasma Vegetale» dell’Università di Pavia, «una banca – sottolinea il professor Rossi – ormai storica, che dal 2005 fa uno stoccaggio di semi, semi che poi abbiamo duplicato in altre banche. Fra i primi stoccaggi di piante coltivate ricordo quelli dei mais bergamaschi, di Rovetta e Gandino, che poi abbiamo mandato anche alla Banca dei semi delle Svalbard», cioè la «Svalbard Global Seed Vault», situata nella cittadina di Longyearbyen sull’isola norvegese di Spitsbergen. Tutto iniziò nel 2005 con una collaborazione «fra la Regione Lombardia e il Parco del Monte Barro (Lecco), Centro Flora Autoctona, ed ora proseguiamo questo lavoro come Università di Pavia, soprattutto per le varietà agricole “antiche”».
I semi trovati da «La Rava e la Fava» verranno conservati nella Banca di Pavia, è lì che giungeranno «dopo che saremo riusciti ad individuare se ci sono ancora delle varietà di una determinata pianta orticola a livello famigliare, magari grazie alla segnalazione della stessa famiglia o grazie a nostre ricerche. Di solito una varietà poco diffusa arriva a noi dopo essere stata tramandata da una generazione all’altra, con il pericolo che questa catena si spezzi. La pandemia, che ha colpito molti anziani, in questo senso ha fatto dei danni. C’è da dire poi che ormai sono pochi i giovani interessati all’orto. Un motivo in più per riuscire a trovare e conservare queste varietà specifiche».
Qualche esempio di questo lavoro di ricerca ce lo riporta Francesco Zonca: «nella Bergamasca ci sono esempi interessanti come la rapa di Bossico, già citata nel 1817 come una coltivazione caratteristica del territorio e tutt’ora coltivata e apprezzata. Oppure la patata di Schilpario, coltivata dal 1819, introdotta sul territorio da un medico locale e poi diffusa alle valli vicine. Si tratta di una patata di montagna che si raccoglie a fine settembre per il consumo invernale. Ma anche a Caravaggio, dove un gruppo di orticoltori (Orti Caravaggini) riproduce cultivar interessanti, un pomodoro a corno (Corèn del Tempestì) coltivato da oltre 30 anni e un melone conosciuto localmente come “Satela de Careàs”, melone antico caratterizzato da una pelle rugosa e più simile a una zucca, dal gusto intenso ma poco zuccherino».
Ovviamente, come per ogni indagine che si rispetti, ci sono “casi” risolti e altri che invece si rivelano falsi: «quando si ha una segnalazione di una nuova cultivar viene svolta un’indagine attraverso interviste e sopralluoghi, per capire la storia e l’origine di questa coltivazione. Ad esempio qualche tempo fa dal Lago di Endine ci è giunta una segnalazione di un pomodoro giallo tardivo, interessantissimo perché questo tipo di pomodori sono poco diffusi, soprattutto nel Nord Italia. Le indagini svolte dall’Università di Pavia e in particolare dal professor Rossi, hanno permesso di capire che questo pomodoro non aveva i requisiti per essere considerato una varietà antica».
Turismo, ricerca, divulgazione e formazione
Un progetto come «La Rava e la Fava» ha anche quattro altri possibili risvolti. Quello turistico e quello riguardante la ricerca, li illustra il professor Rossi: «il materiale che abbiamo raccolto fino ad ora è utile per studi genetici al Dipartimento di Bioscienze dell’Università di Milano, per l’opera di divulgazione e comunicazione dell’Orto botanico di Bergamo e per l’Università di Pavia che fa da capofila del progetto con la Banca. L’aspirazione è affiancare ai materiali che abbiamo altri materiali che possono essere coltivati ancora, in modo da ricreare delle varietà locali, che possono aiutare anche il turismo per quanto riguarda il mondo agricolo. Inoltre quello della Banca è materiale genetico che mettiamo a disposizione del mondo della ricerca e dello sviluppo per trovare nuove soluzioni in ambito agricolo, come ad esempio varietà che “resistano” a fattori di stress, quali sono i cambiamenti climatici. Innanzitutto però vogliamo salvare l’esistente».
L’altro è uno dei target degli orti botanici, continua Rinaldi, «sono gli appassionati di orticoltura urbana. A Bergamo ne stiamo formando parecchi con incontri periodici online in cui spieghiamo non solo le modalità per coltivare il proprio orto biologicamente, ma trasmettiamo concetti che accrescono i valori etici ed ecologici degli orti stessi. Vogliamo che anche gli orti urbani siano depositari di cultivar interessanti, come quelle antiche o tradizionali. Vogliamo che le persone si scambino semi, vadano alla loro ricerca, si rendano protagonisti per il futuro. In altri termini contribuiamo alla crescita culturale di cittadini che poi, a loro volta, diventano diffusori di buone pratiche».
Un altro risvolto formativo lo spiega Francesco Zonca: «Il progetto prevede anche una parte di formazione riservato sia alle aziende che partecipano al progetto, sia ad altre che sono interessate. È stato già organizzato un primo workshop di presentazione del progetto e per gennaio è in previsione un secondo workshop dedicato ai custodi di questi semi. Sono spesso famiglie o persone che conservano questa biodiversità, a cui vogliamo dare voce, per diffondere l’importanza delle coltivazioni di antiche varietà». Un invito che vale per i privati ma pure per le aziende, tanto che uno dei tanti progetti che sta portando avanti l’Università di Pavia è creare una rete regionale di aziende agricole custodi che hanno interesse verso questo tipo di coltivazioni.
«È chiaro – sottolinea Gabriele Rinaldi – che per un progetto di successo alle fasi di ricerca, caratterizzazione e conservazione deve seguire quella di ripristino della filiera, a partire dalla domanda del consumatore, determinante per la ripresa di una coltivazione. Cosa ne sarebbe della Scarola dei Colli di Bergamo, prodotto tipico locale, se non fosse richiesta dal consumatore, magari a favore di varietà standard e più economiche? I pochi agricoltori che ancora la coltivano nel giro di una sola stagione agronomica potrebbero abbandonarla e il nostro territorio perderebbe un’eccellenza gastronomica! Noi vogliamo fare tutto il possibile perché i cittadini, a partire dai nostri visitatori siano educati a leggere le etichette, a pretendere di conoscere le varietà che mangiano, ad apprezzare il grande valore dell’agrobiodiversità tradizionale».
Varietà di famiglia da segnalare
Ma l’aspetto più importante che il professore Graziano Rossi, il curatore Francesco Zonca e il direttore Gabriele Rinaldi tengono a sottolineare è che un progetto come «La Rava e la Fava» può continuare a dare risultati anche grazie a tutte quelle persone che “sospettano” di coltivare semi antichi e poco diffusi. «Stiamo cercando di sensibilizzare l’opinione pubblica – conclude il professor Rossi – nel comunicarci le loro varietà di famiglia, per darci un campione, ad esempio di un pomodoro, da cui noi estraiamo le sementi per essere studiate e conservate. Lo scopo più importante è di trovare e salvare queste varietà “antiche”. Basta che non si semini un anno o due per perdere tutto».
Le segnalazioni vanno inviate all’Università di Pavia all’indirizzo [email protected] oppure a [email protected] o all’Orto Botanico di Bergamo all’indirizzo [email protected].