Come sarà l’Italia nel 2786, mille anni dopo il viaggio nel nostro Paese di Goethe? E il mondo, girato in otto giorni, a mille anni di distanza da «Il giro del mondo in 80 giorni di Jules Verne», cioè nel 2872? E come può essere il nostro rapporto con la natura «più grande di noi», per non pagare le conseguenze dei nostri comportamenti? Tre domande per tre libri di Telmo Pievani. Con cui è un piacere fare due chiacchiere su Antropocene, riscaldamento globale e pandemia.
LB: Ci troviamo in una situazione in cui abbiamo un’abbondanza di dati che confermano il riscaldamento globale e l’effettiva esistenza dell’Antropocene. Però a livello di opinione pubblica non sembra che l’interesse su questa questione sia particolarmente acceso. Come mai?
TP: La risposta è difficile, diciamo che ci sono tante ragioni. Scelgo le due principali. La prima è che si è creato un effetto di assuefazione, cioè che ne parliamo da un po’ troppo tempo con gli stessi linguaggi, e quindi si è creata un po’ di rassegnazione e di assuefazione. Bisogna trovare altre narrazioni, altri linguaggi, che arrivino un po’ più alle corde emotive del pubblico. La seconda ragione è che c’è un grande implicito dentro tutto questo discorso e cioè che il riscaldamento climatico ci chiede di fare dei cambiamenti del nostro stile di vita e questo ci dà un po’ fastidio. Quindi tendiamo a rimuoverlo perché lo vediamo come un sacrificio quando in realtà è un investimento sui nostri figli e sui nostri nipoti.
LB: La questione sentimentale ed emotiva è fra gli aspetti che affrontate raccontando l’Antropocene in tre modi: con la sua narrazione che definirei “ballardiana”, quella geografica di Mauro Varotto e le belle cartine di Francesco Ferrarese.
TP: Sì, è proprio così, l’esperimento che abbiamo provato a fare noi in questi libri è quello di mescolare linguaggi diversi. Per me questo è fondamentale: l’Antropocene e il riscaldamento globale li devi raccontare con la scienza e la geografia, in questo caso di Mauro Varotto, dove viene spiegato cosa sta succedendo. Poi hai le mappe, che sono un linguaggio necessario perché visualizzano, sono molto dirette, molto intuitive, appunto toccano gli aspetti più emotivi, perché noi abbiamo un’intelligenza visuale, gli occhi arrivano per primi. E poi c’è la narrazione mia, più ironica, d’invenzione, che estremizza la situazione attuale se non facciamo niente.
LB: In tutto questo date anche delle soluzioni.
TP: I due libri sull’Antropocene sono pieni di soluzioni e possibili prospettive temporali. Dicono: «Guarda, ti faccio vedere l’Italia tra otto secoli, il mondo nel 2872» e tu dici «vabbè, figurati, cosa mi interessa, è un futuro talmente lontano che non ci saremo più e pazienza». E no! Perché se stai attento, quello che tu vedi lì essere molto lontano nel futuro in realtà sta già succedendo adesso, nel 2023, non tra otto secoli.
LB: Peraltro ne «Il giro del mondo nell’Antropocene» lei individua una serie di cause culturali alla base del riscaldamento globale. Racconta come 45 mila anni fa i discendenti di homo sapiens neri – che partendo dal Corno d’Africa si erano diffusi in tutta la Terra – arrivarono in Nord America attraverso lo stretto di Bering e cacciavano i mammut anche a 20 gradi sotto zero. E conclude: «Se un cacciatore africano insegue mammut fino al Polo Nord, significa che non ha più barriere ecologiche insuperabili davanti a sé. Ecco un’altra radice antica della nostra situazione attuale: la perdita del limite». Che lei individua in radici culturali antichissime.
TP: Esatto. Sì, perché noi adesso abbiamo preso questa decisione, che io contesto un po’, di fare cominciare l’Antropocene in tempi molto recenti, ad esempio nel 1945 con l’esplosione delle bombe atomiche. Che ha un senso ovviamente, io lo capisco perché a parte l’evento tragico di per sé, è l’inizio di quella che noi chiamiamo «la grande accelerazione», un’accelerazione incredibile nel nostro sfruttamento delle risorse, con una grande crescita demografica e di conseguenza un forte l’impatto sull’ambiente. Però a me piace ricordare che in fondo la specie umana è da tanto tempo che trasforma l’ambiente. Non sempre in modo distruttivo: i cacciatori-raccoglitori da millenni co-evolvono in un modo tendenzialmente equilibrato con gli ecosistemi in cui vivono. Però vorrei sfatare un po’ il mito che noi veniamo da un’età dell’oro di armonia con la natura che abbiamo violato soltanto recentemente: in realtà è qualcosa di più radicato, è una specie di ambivalenza. La specie umana è capace di cose meravigliose, di inventiva, di slancio, di solidarietà, di sentirsi una comunità con un destino, però, allo stesso tempo, da millenni è anche invasiva e distruttiva.
LB: Quando questi cacciatori escono dall’Africa già 60 millenni fa, dove arrivano loro cambia il mondo.
TP: Non c’è niente da fare: la biodiversità diminuisce, sono invasivi. Bisogna tornare alle radici antropologiche profonde della crisi tra la specie umana e l’ambiente, perché per me questo è importante per dare una prospettiva evolutiva e profonda a quello che sta accadendo adesso. Non per prenderci degli alibi, assolutamente, secondo il ragionamento «L’abbiamo sempre fatto, lo faremo sempre». No, l’idea è che dobbiamo veramente guardarci dentro, nel modo in cui ci rapportiamo alla natura, e capire una volta per tutte che la natura non è una risorsa inerte, là fuori, a nostra disposizione. Ma è un grande sistema di relazioni nel quale noi siamo immersi: l’ha detto benissimo Papa Francesco nella «Laudato si’».
LB: Poco più avanti nel libro racconta che questi sapiens, nonostante emigrando più a sud avrebbero vissuto in un clima più mite, continuavano a vivere tra i ghiacci perché consideravano «ovvia, naturale e ineluttabile la propria condizione di nascita, come la rana che finisce lentamente bollita senza accorgersene: ecco un’altra motivazione di fondo dei guai climatici in cui ci siamo ficcati».
TP: Diciamo che questo in realtà è un “mistero”. Abbiamo scoperto che la presenza umana, nell’Artico in particolare, è molto più antica di quanto pensassimo e queste popolazioni di cacciatori erano capaci di sopravvivere in condizioni estreme già in tempi molto antichi. È una scoperta che ha sorpreso tutti e dobbiamo ancora capirla bene perché erano cacciatori africani a tutti gli effetti, che erano usciti dall’Africa pochi millenni prima e quindi la domanda intrigante è «Chi glielo faceva fare di vivere in condizioni così estreme?». Domanda dalla risposta difficile perché allora la densità demografica era bassissima, risorse ce n’erano in abbondanza e bastava andare un po’ più a sud per trovare condizioni molto più favorevoli. Quindi perché vivere in condizioni così difficili?
LB: Appunto, perché?
TP: Quando noi saremmo capaci di rispondere a questa domanda avremo capito un po’ meglio e un po’ di più sulla natura umana. Una risposta molto bella l’ha data Ian Tattersal, un grande antropologo che mi ha detto «Guarda, secondo me tu devi immaginare che questi nostri antenati migravano lentamente. Non è che intenzionalmente si spostavano di generazione in generazione, era una sorta di lento movimento di esplorazione». E questo torna, perché se io sposto il mio accampamento di pochi chilometri ad ogni generazione, in alcune migliaia di anni posso andare dove voglio, come una macchia d’olio che si espande sempre di più. Poi mi ha detto: «Tu immaginati che quelli che nascevano in un certo luogo non avevano la memoria di tutte le generazioni precedenti e quindi davano per “naturale” vivere in quel luogo, che chiamavano “casa” ed era il ghiaccio, l’Artico».
LB: Parliamo di virus e della recente pandemia. In «La natura è più grande di noi» lei scrive: «Esiste dunque una relazione profonda fra crisi ambientale e pandemie». In cosa consiste?
TP: Riassumendo la risposta, credo che ci sia da un lato un argomento scientifico e dall’altro, principalmente, uno etico. Quello che io sostengo è che noi ci stiamo dimenticando di una parte importantissima di quello che è successo, le relazioni ecologiche della pandemia. Le stiamo proprio rimuovendo. Le pandemie non nascono dal nulla, nascono dal rapporto con gli animali, l’ambiente; nascono da questo rapporto patologico che abbiamo noi oggi con gli animali. Se usciamo dalla pandemia e ci dimentichiamo di questo, facciamo un errore gravissimo, che è eticamente inaccettabile perché le pandemie le soffrono di più i popoli poveri, in generale gli strati più deboli della popolazione, come i popoli nativi. Allora dobbiamo fare di tutto per evitare che accada la prossima e per fare questo dobbiamo capire che c’è una trama di relazioni ecologiche che sono alla base della probabilità delle pandemie. E poi aggiungo – perché ci tengo molto sempre sul piano etico – abbiamo fatto l’errore terribile di non vaccinare tutto il mondo, cioè di non liberalizzare il vaccino e renderlo disponibile a tutti.
LB: Se metà del pianeta non è vaccinata…
TP: La pandemia ci si rivolge contro. Perché rendiamo la metà più debole e più povera del mondo un amplificatore di varianti, che poi arrivano anche da noi. Inoltre non è giusto che questo risultato meraviglioso della scienza – che è stato pagato con i soldi pubblici – venga privatizzato e dobbiamo pagarlo sempre di più ogni anno, ogni volta che dobbiamo fare un richiamo del vaccino. Il nostro rapporto con il mondo in cui abitiamo ha delle leggi di natura che non abbiamo rispettato. Non dovevamo comportarci in questo modo e ora ne stiamo pagando le conseguenze. Sia per la pandemia, sia per il riscaldamento globale.
LB: I tre libri che presenterà a Bergamo disegnano uno scenario realistico e preoccupante. Qual è il suo stato d’animo fra una pandemia – che potrebbe non essere fra le peggiori – e l’incombere del riscaldamento globale, per una persona che all’inizio di un suo libro dice che «questa storia un senso non ce l’ha, come canta uno dei miei poeti preferiti», cioè Vasco Rossi?
TP: La dedica a Vasco (ride, ndr) l’ho messa per ringraziarlo del post in cui dice che ha letto i miei libri. A parte questo, in realtà il mio stato d’animo è abbastanza contrastato, perché è chiaro che i dati sono negativi e non stiamo facendo abbastanza. Da docente universitario, poi, vedo che sta crescendo tanto nei ragazzi quella che chiamiamo eco-ansia, questo sentimento di rassegnazione, di paura, di delusione, di rabbia. Però io resto un inguaribile ottimista, con razionalità più che speranza: noi oggi lavoriamo con tecnologie che vent’anni fa erano assolutamente inimmaginabili e così sarà fra vent’anni. Non tutto è perduto, lo vedo negli occhi dei ragazzi che arrivano in aula con la voglia di scoprire cose nuove.