Nonostante sembra che il contagio stia lentamente affievolendosi, non bisogna abbassare l’attenzione di fronte al nuovo coronavirus. Per capire qualcosa di più su come è stata gestita l’emergenza e su come l’ha avvertita la popolazione abbiamo fatto una chiacchierata – necessariamente non esaustiva, perché i punti da toccare sono tanti e sfaccettati – con Gianluca Dotti, giornalista scientifico freelance per Wired e fisico di formazione.
GB: Già fin dai primi giorni di emergenza si sono susseguite tantissime dichiarazioni di esperti, tra le quali purtroppo molto spesso non c’era concordanza. Come mai?
GD: Sicuramente a febbraio e per buona parte del mese di marzo del sars-cov-2 si sapeva veramente poco. È un patogeno nuovo, non si avevano chiare né le caratteristiche della malattia che faceva sviluppare né altre cose fondamentali come contagiosità e diffusione. Tutto ciò ha reso la situazione scientifica estremamente vaga: le conoscenze scientifiche pubblicate su riviste con peer-review, che trovassero d’accordo la comunità scientifica in generale, erano veramente poche. In secondo luogo, spesso si chiedeva agli esperti di raccontare non solo lo stato dell’arte, ma di fare anche una sorta di previsione su quello che sarebbe accaduto nelle settimane successive. Quando si parla di previsioni per il futuro si tratta sostanzialmente di opinioni e questo spiega anche come mai ci siano state opinioni, tra loro, non allineate.
GB: Ciò non significa, però, che la scienza dia risultati contraddittori.
GD: No, assolutamente. È che in quel momento non c’erano le conoscenze sufficienti. Forse c’è stato anche una piccola disattenzione da parte di alcune delle persone che sono state interpellate sui media, che hanno proposto una propria versione senza specificare che di previsione si trattava. Secondo me poi c’è un’altra questione.
GB: Quale?
GD: In tutta l’epidemia, dal punto di vista mediatico, ci si è rivolti moltissimo a medici e ricercatori bypassando completamente un altro tipo di professionalità, che è quella dei divulgatori e comunicatori scientifici. Tra gli esperti più in vista sui media ci sono state posizioni diverse: c’erano scienziati che tranquillizzavano e altri che, invece, proponevano il problema con estrema gravità, usando a volte un lessico militare. In tv questo è dovuto un po’ al fatto che il format di alcune trasmissioni vive di contrasti e di dibattiti. Dopodiché, è ovvio che ci sono tantissime cose su cui tutti gli scienziati sono d’accordo; è chiaro però che sui media si tende un po’ a concentrarsi su aspetti più controversi.
GB: A proposito di lessico militare, è stato usato parecchio.
GD: Ci sono state diverse casistiche, secondo me. Sicuramente ciò che è cambiato rispetto al solito è che le parole, dette in un momento in cui le persone hanno le antenne super rizzate, pesano molto. Una semplice scelta lessicale può fare molta differenza nella percezione pubblica; il momento ha reso la comunicazione molto più difficile e più incisiva sulle persone. Sulla scelta del lessico, di certo immergersi nel campo della guerra crea un clima di angoscia e paura. C’è anche chi sostiene che, almeno in una fase iniziale, utilizzare un lessico (a volte fin eccessivo) possa rendere esplicita la gravità del momento e portare le persone ad avere comportamenti più prudenti. Si rientra in un ambito in cui non c’è giusto o sbagliato.
GB: Per quanto riguarda invece il lessico scientifico, secondo lei gli scienziati hanno compreso l’effetto che le dichiarazioni “da addetti ai lavori” possono avere avuto su un pubblico generalizzato e, soprattutto, terrorizzato?
GD: Sull’uso della terminologia scientifica molto tecnica c’è un mestiere: trovare espressioni per raccontare le situazioni in modo scientifico ma comprensibile è difficile, tutti i termini tecnici che usavamo all’inizio sono stati sdoganati. Oggi parliamo di tasso di riproduzione netta R0 come se stessimo parlando di gusti della pizza, sono ormai entrati nel gergo comune. Da questo punto di vista l’educazione del pubblico è estremamente cambiata e migliorata.
GB: Quanto ha influito la poca preparazione scientifica degli italiani in queste settimane nella percezione del fenomeno?
GD: Secondo me coloro che rifiutano la conoscenza condivisa dalla comunità scientifica costituiscono una parte molto minoritaria della popolazione. Il non conoscere la terminologia scientifica e il non essere esperti di patogeni ed epidemiologia non credo sia stato un problema enorme, se andiamo a vedere il comportamento del singolo individuo.
GB: Per strada si trovano persone che usano la mascherina in modo, diciamo così, “molto personale”…
GD: È la parte più carente, forse, cioè conoscere quali siano i comportamenti decisivi per impedire la trasmissione del virus da persona a persona: mascherine portate in modo non adeguato, oppure persone scrupolosissime su alcuni aspetti e totalmente carenti su altri. L’esempio forse più eclatante è quello dei guanti: portare il guanto è una protezione ulteriore che possiamo avere, ma se con lo stesso andiamo a toccare una superficie possibilmente infetta e poi ci portiamo la mano al volto a quel punto la funzione del guanto è totalmente annullata. In alcuni casi i dispositivi sembrano quasi portati come amuleti: la mascherina sotto al mento e i guanti tolti senza alcuna cura sembrano più un modo per evitare sguardi e commenti negativi, piuttosto che per effettiva protezione..
GB: Possiamo anche dire, però, che accanto ad una minoranza di persone che hanno violato le regole, la maggioranza le ha rispettate?
GD: Sono d’accordo con lei sul fatto che stiamo parlando di una minoranza che andiamo proprio a cercare con il lanternino. Poi, secondo me, ci sono due punti da trattare. Il primo è che, in un momento in cui stiamo facendo tutti uno sforzo collettivo di contenimento del contagio, fa rabbia che ci sia qualcuno che ignori il problema e le regole suggerite. Da questo punto di vista, è qui la differenza rispetto ad altri temi sociali importanti: si percepisce il comportamento sbagliato di qualcuno da un lato come un danno per tutti e, dall’altro, come un qualcosa che crea un’ingiustizia. Il secondo punto è che, proprio perché si tratta di una minoranza di persone, ci stiamo concentrando davvero sulle minuzie, dimenticando che il fine settimana prima del lockdown c’erano, per esempio, le discoteche aperte. Fa sorridere che ci si indigni a maggio per la persona che fa una corsetta in solitudine, ma allo stesso tempo non ci si rende conto di come alcune scelte tardive siano state quelle che davvero hanno fatto la differenza.
GB: Perché si è più concentrati sul comportamento delle singole persone (come il runner o chi fa la “movida”), invece di capire se esiste un piano di tracciamento e isolamento dei casi di covid-19?
GD: Dal punto di vista della gestione sanitaria, territoriale e strategica dell’epidemia siamo sempre stati in una situazione di scarsissima organizzazione. Abbiamo rincorso il ritardo e non eravamo pronti, prima che arrivasse il virus, a gestire una situazione di questo tipo. La risposta del sistema sanitario della Protezione Civile sicuramente è stata di buon cuore e di buona volontà, ma di fatto nei numeri è stata tardiva e insufficiente. Anche nella fase 2, anche se non c’è dubbio che la situazione stia lentamente migliorando, non c’è stato il cambio di passo che era stato promesso, perché il contact tracing è ancora basato sulle interviste a voce e sull’applicazione Immuni ci sono ancora vari punti di domanda.
GB: Quindi proviene da tutto questo la reazione di una parte della popolazione…
GD: Dico una cosa volutamente non scientifica, tante persone hanno pensato: “Siamo nelle mani del Signore”. Se vogliamo contenere la diffusione, l’unico modo davvero efficace è che ognuno di noi debba dare il suo contributo; da qui deriva probabilmente l’attenzione ai comportamenti soprattutto altrui, ovviamente, piuttosto che propri. Bisogna che stiamo attenti per primi noi.
GB: La modalità con cui vengono dati i numeri nell’ormai classico appuntamento delle 18 è corretta?
GD: L’esistenza di un momento quotidiano di comunicazione dei dati penso sia un’ottima cosa. Il punto non sta nel comunicare in sé, ma nel come lo si fa. Vengono, infatti, letti dei numeri, con delle variazioni anche importanti tra un giorno e un altro, e non vengono mai spiegati né il significato e l’incertezza degli stessi né i problemi di raccolta, soprattutto legati a questioni tempistiche. Per usare una battuta, direi che se i dati fossero stati letti da Alexa ci sarebbe stata, forse, più empatia nella trasmissione: si leggeva un documento sempre con stessa formula, slanciandosi in un “purtroppo” davanti ai deceduti che era sempre lo stesso purtroppo ogni giorno, indipendentemente dal numero. Abbiamo avuto una curva, che è la classica curva di un contagio epidemiologico, in cui l’unica cosa significativa è stato il rallentamento della crescita esponenziale fino ad arrivare a un massimo e la lentissima discesa, che sta continuando. È come se, con i bollettini quotidiani dati all’unità, andassimo a vedere ogni puntino di questa curva, che un po’ oscilla rispetto al trend, e ogni giorno stessimo furiosamente a cercare delle spiegazioni rispetto al dato precedente.