La bioetica è quel campo di ricerca e di riflessione che si propone di studiare i complessi problemi morali, sociali e giuridici sollevati dagli sviluppi delle scienze della vita: la biologia, la medicina, l’ecologia, l’etologia. Se pensiamo alla bioetica riferita al mondo dello sport, ecco che ci addentriamo nel campo di ricerca privilegiato dagli studi della professoressa Silvia Camporesi, relatrice della conferenza di sabato 5 ottobre nell’ambito di BergamoScienza dal titolo: «Diversità e disabilità nello sport: vantaggi o svantaggi?» La professoressa Camporesi ci parlerà di vantaggio nel mondo dello sport, approfondendo tre tematiche: disabilità e super-abilità, tecnologie genetiche a scopo di potenziamento (doping genetico), e doping “naturale”. È un appuntamento da non perdere per gli appassionati del mondo dello sport.
Silvia Camporesi, forlivese con un trascorso sportivo da mezzofondista, è bioeticista dello sport di rilievo a livello internazionale nonché titolare della cattedra Sport Integrity and Ethics presso l’Università KU Leuven del Belgio. Tra le sue numerose qualifiche professionali mi piace sottolineare che dal 2020 è uno dei quattro membri dell’Ethics Expert Advisory Group della World Anti Doping Agency (Agenzia Mondiale contro il Doping).
Colgo al volo l’occasione di un’intervista in esclusiva. Nell’attesa dell’incontro una miriade di domande si affacciano nella mia mente. Scelgo di partire dall’argomento in cui mi sento più pronto: il doping genetico, una problematica molto complessa in cui regna ancora molta confusione tra la gente comune. La professoressa Camporesi puntualizza subito un concetto: «Quando parliamo di doping genetico mi riferisco alle tecnologie di trasferimento genico con il fine di potenziare la massa muscolare, o il livello di ematocrito, e quindi conferire un vantaggio a livello di performance rispettivamente nella forza e nella resistenza».
«Non sono tecnologie nuove, infatti il primo caso di tentativo di doping genetico risale al 2006. Fu allora trovato colpevole un allenatore di atletica leggera Thomas Springstein, perché si era cercato di procurare o si era procurato, non è chiaro, un farmaco di nome “Repoxygen”, allora in via di sperimentazione preclinica, cioè su animali, per l’anemia falciforme, un tipo di malattia genetica del sangue in cui i globuli rossi assumono una caratteristica forma a falce e non sono in grado di trasportare l’ossigeno in modo efficiente, causando dolore e occlusioni ai vasi sanguigni che possono essere anche letali. Il farmaco andava ad aumentare la quantità di globuli rossi nel sangue, un risultato che poteva essere terapeutico nel caso di pazienti con anemia, ma poteva essere “potenziante” nel caso di individui sani o atleti che partivano da livelli di globuli rossi nella norma. Da notare che si parla di un allenatore colpevole di aver cercato di procurarsi il farmaco da somministrare ai suoi atleti».
CF: Esistono casi conclamati di atleti che hanno fatto ricorso al doping genetico?
SC: Non esistono casi conclamati anche se ci sono stati sospetti di doping genetico alle Olimpiadi di Londra del 2012, in riferimento al caso della nuotatrice cinese Shiwen. Ne parlo nel mio libro «Partire (s)vantaggiati? Corpi bionici e atletici geneticamente modificati» (collana «Icaro: Futuro della Scienza», Fandango, 2023).
CF: Ritiene che il doping genetico rappresenti una reale minaccia per lo sport di oggi e del futuro?
SC: Si, credo che sia una minaccia reale anche se è plausibile pensare che ci siano strategie tradizionali di più facile esecuzione che il doping genetico. Penso che il doping genetico possa essere un tipo di doping molto sofisticato che verrà usato non in prima o seconda battuta, come strategia dagli atleti. Penso inoltre che per questo tipo di strategie sofisticate ci sarà sempre il coinvolgimento di altri individui oltre all’atleta, mi riferisco qui alla responsabilità dell’entourage sportivo, le persone che stanno vicine all’atleta (allenatore, coach, medico sportivo, fisioterapista…) e che sono passivamente o attivamente corresponsabili del doping.
CF: Come sta evolvendo la ricerca nella terapia genica?
SC: Per quanto riguarda i più recenti sviluppi di questo tipo di tecnologie, ora abbiamo a disposizione le tecnologie CRISPR di modificazione genetica mirata, per cui nel 2021 hanno vinto il Premio Nobel Jennifer Doudna e Emmanuelle Charpienter. Queste tecnologie di modificazione genetica permettono di modificare in modo preciso e mirato un singolo gene, e a distanza di pochi anni da quando è stata sviluppata è stato approvato proprio nel dicembre del 2023 il primo farmaco per uso nell’essere umano. Si chiama «Casgevy» ed è stato approvato in Regno Unito e negli Stati Uniti. Neanche a farlo apposta è un farmaco approvato per pazienti affetti da anemia falciforme, la stessa patologia per cui nel 2006 fu trovato colpevole l’allenatore tedesco Thomas Springstein. Quindi sì, la tecnologia va avanti e non è, a mio avviso, implausibile pensare che la stessa tecnologia possa essere usata anche a scopo di potenziamento: il farmaco va a riaccendere la produzione di emoglobina fetale la cui espressione viene normalmente fisiologicamente spenta poco dopo la nascita.
CF: Quali rischi corre chi si sottopone al doping genetico?
SC: Il rischio posto da questo tipo di tecnologie è alto, soprattutto se si tratta di tecnologie in via di sperimentazione preclinica, su animali. Per questo, a mio avviso, è plausibile affermare che il doping genetico non sarà mai il tipo di doping “prevalente”, quando ci sono altri modi di doparsi farmacologicamente che sono stati usati per anni e che quindi sono stati “testati” su atleti, che hanno fatto da cavie della sperimentazione. Da questo punto di vista il doping farmacologico è più attraente per un atleta, anche se il doping genetico potrebbe essere più difficile da rivelare.
CF: I sistemi di controllo antidoping attuali sono efficaci rispetto al doping genetico?
SC: La WADA (World Anti Doping Agency) finanzia direttamente la ricerca di laboratori che si occupano di terapia genica affinché questi mettano a punto tecnologie di rilevazione del doping genetico. Le strategie di rilevamento quindi esistono, ma è una gara “al gatto e al topo” tra laboratori che mettono a punto strategie di rilevazione di doping genetico e laboratori che possono sviluppare strategie di doping genetico.
La chiarezza e la competenza della prof.ssa Camporese mi portano a spingermi oltre. Affrontiamo la questione relativa ad atleti “naturalmente dopati” (come il fondista Eero Mantyranta negli anni ‘60, la mezzofondista Caster Semeneya nei primi anni duemila o la pugile algerina Imane Khelif ai recenti Giochi Olimpici di Parigi) e la discriminazione uomo-donna nel trattare questi casi.
CF: Quale organismo sportivo prende decisioni su questi casi particolari?
SC: Il Tribunale Arbitrale Sportivo (TAS) non prende decisioni riguardo agli atleti in prima battuta ma tocca alle singole federazioni. Il TAS può, e lo ha fatto in passato, accogliere gli appelli di atleti e atlete, come la mezzofondista sudafricana Caster Semenya e la velocista indiana Dutee Chand, che sono state oggetto di restrizioni o esclusioni alla partecipazione di competizioni. Costoro si sono rivolte al TAS per chiedere che questi provvedimenti venissero sospesi. Così avvenne, nel luglio 2015, per Dutee Chand con la sospensione delle regole sull’iperandrogenismo, mentre nel maggio 2019 il TAS, con una maggioranza di 2 giudici su 3, emise una sentenza con la quale le regole sull’iperandrogenismo tornavano in vigore.
CF: L’iperandrogenismo in una donna indica una eccessiva produzione di ormoni maschili (androgeni), in particolare di testosterone.
SC: Nel 2021 il CIO (Comitato Olimpico Internazionale) pubblica un documento, intitolato «Equità, l’inclusione e la non discriminazione basata sull’identità di genere e le variazioni del sesso», che attualmente è il documento normativo di riferimento per l’idoneità a partecipare nella categoria femminile. Questo afferma la necessità di garantire che tutte le atlete e tutti gli atleti possano «partecipare a competizioni eque dove nessun partecipante ha un vantaggio iniquo e sproporzionato rispetto agli altri». Il CIO, però, lascia alle singole federazioni il ruolo di promulgare criteri per il proprio sport, sulla base di “robuste evidenze scientifiche” che devono essere sport-specifiche. Nel caso della Khelif ho scritto quest’estate sul quotidiano La Stampa quanto segue: «E qui veniamo alla diatriba tra IBA e CIO che ha portato allo scoppio del caso Khelif. L’associazione Internazionale di Boxe (IBA) è stata privata del suo stato di federazione internazionale della boxe dal CIO nel giugno del 2023. Secondo il CIO, l’IBA non aveva soddisfatto le preoccupazioni sollevate ripetutamente e relative alla sua governance e in particolare ai suoi stretti legami finanziari con la Russia. Una nuova federazione, World Boxing, è sorta al posto dell’IBA, e si attende il suo riconoscimento ufficiale dal CIO come nuova federazione che governa la boxe a livello internazionale. Nel frattempo, il CIO ha preso in mano l’organizzazione del torneo di boxe di Parigi del 2024. Le federazioni sportive internazionali infatti, alla fine dei conti, rimangono sottoposte al CIO. Alla fine dei conti, quando emergono queste tensioni tra federazioni e CIO, e tra nazioni e CIO, a rimetterci sono sempre le atlete donne, nonostante tutti affermino di volerle proteggere».
CF: Prendiamo ora in considerazione il caso di alcuni atleti paralimpici con prestazioni alla pari se non superiori ai normodotati cui è stata negata la possibilità di partecipare ai Giochi Olimpici: è sempre il TAS a prendere decisioni in tal senso?
SC: Anche in questo caso sta alle singole federazioni sportive internazionali, in prima battura, emettere regolamenti validi per il proprio sport, poi, in seconda battuta, gli atleti possono fare appello al TAS. Oscar Pistorius, il noto velocista sudafricano con protesi ad entrambi gli arti, nel 2008, fu ammesso a partecipare insieme agli atleti “normodotati” in seguito alla sentenza del TAS; trattamento diverso invece per Blake Leeper, velocista statunitense, che nel 2020, sempre in seguito a una sentenza del TAS, non fu ammesso ai Giochi Olimpici nonostante lo stesso tipo di disabilità congenita di Pistorius.
Questo tipo di incongruenze mi lasciano allibito. La cosa ancor più sorprendente è che compete a questi atleti dimostrare scientificamente che non esistono vantaggi dall’uso delle protesi!
Incalzo la professoressa con le ultime domande:
CF: Culturalmente in Italia siamo pronti per una Caster Semenya ammessa alle gare senza alterazioni obbligate del livello di testosterone o per una Imane Khelif che “fa male” quando colpisce un’altra pugile o per un Markus Rehm che salta in gara insieme al nostro gioiellino Mattia Furlani?
SC: Penso di sì, siamo pronti culturalmente in Italia per gli scenari che lei ha proposto, le nuove generazioni non fanno riferimento a un concetto di normalità normativo o un binarismo di genere, e lo sono senza dubbio. Sono ottimista verso il futuro perché ho avuto varie di queste conversazioni che hanno preso spunto dai temi trattati dal mio libro con le nuove generazioni (nati dopo il 2000, per intenderci) e ho potuto toccare con mano che c’è una grande apertura in questo senso.
CF: Ci stiamo muovendo verso la nascita di nuove categorie nello sport (non più solo maschile e femminile)?
SC: Sì, penso che ci stiamo muovendo verso nuove categorie nello sport che vanno oltre il binarismo maschile/femminile e la distinzione Olimpiadi/Paralimpiadi, anche se le federazioni sportive tradizionali, come quella di atletica (World Athletics) si mostrano molto resistenti a questi cambiamenti (penso che si tratti di una questione generazionale, almeno in parte).
Le curiosità e le domande sarebbero ancora molte ma tutto è rimandato a sabato 5 ottobre alle ore 15 presso il Pala SDF di NXT Bergamo in Piazzale degli Alpini a Bergamo. Un sincero ringraziamento alla professoressa Silvia Camporesi per la cordialità, la passione e la professionalità dimostrata.