“Ma siamo un Paese forte, un Paese che non si arrende: è nel nostro DNA.”
È questa una delle prime frasi con cui Giuseppe Conte, Presidente del Consiglio dei Ministri dal 1° giugno 2018 al 13 febbraio 2021, ha scelto di inaugurare la conduzione della guerra contro il SARS-CoV-2. Scontro che si è articolato in più battaglie, alcune vinte e altre perse, combattuto dal Primo Ministro con armi del tutto innovative: le parole.
Dal 4 marzo al 3 giugno 2020, il cosiddetto primo (ed unico) lockdown italiano, Giuseppe Conte ha parlato alla popolazione italiana, in diretta nazionale, ben undici volte. Sono testi spesso lunghi e articolati, che rispondono egregiamente a due delle esigenze più sentite dalla popolazione in quei momenti: comprendere le regole in atto e, soprattutto, sentirsi capiti nelle proprie angosce.
Dopo la crisi di governo del febbraio di quest’anno, al timone del Consiglio dei Ministri è andato Mario Draghi: l’uomo dell’economia, dell’euro, della Banca Centrale Europea (e ancor prima di Goldman Sachs, della Banca d’Italia e di molto altro: insomma uno che conta). Economista di formazione e di esperienza, l’uomo del Whatever it takes per salvare l’euro sta avendo un approccio completamente diverso rispetto al suo predecessore, soprattutto dal punto di vista comunicativo. Ma andiamo più nel dettaglio, applicando qualche regola della retorica.
L’esordio
L’esordio è la parte iniziale di un discorso, il cui obiettivo è di rendere benevolo, attento e arrendevole il lettore o l’ascoltatore. Gli esordi dei discorsi di Giuseppe Conte presentano caratteristiche fisse e ricorrenti, che rispondono a precise esigenze dell’oratore. Il discorso del 4 marzo, per esempio, inizia facendo leva sullo spirito di unione e di resistenza del popolo italiano: “…è una sfida che va vinta con l’impegno di tutti: cittadini e Istituzioni… l’Italia, tutta, è chiamata a fare la propria parte”.
Questa frase richiama l’attenzione del pubblico, sottolineando la necessità che ogni singola persona in ascolto si senta chiamata in causa per fare la propria parte. Altro tema ricorrente negli esordi dei discorsi di Giuseppe Conte è l’affettazione di modestia: l’ammissione, da parte dell’oratore, della propria inadeguatezza. Diffuso in tutte le letterature, è psicologicamente efficace in quanto risveglia un primitivo sentimento di simpatia per chi si trova in una qualche difficoltà. Un esordio con questa tecnica è quello del discorso del 26 aprile 2020: “Ci sono stati dei momenti in cui l’epidemia ci sembrava sfuggire da ogni controllo”. Con questa ammissione, l’oratore si fa piccolo davanti al suo pubblico, diventandone parte anch’egli; risveglia, così, sentimenti benevoli nei confronti di un uomo che ammette di star facendo tutto il possibile e, forse consapevolmente, mai abbastanza di fronte a un virus così letale.
Il discorso d’insediamento di Mario Draghi, invece, si caratterizza per un esordio diverso. Innanzitutto è assente l’affettazione di modestia; l’economista, infatti, fa addirittura l’operazione inversa, dichiarando a tutto il pubblico gli impegni che si è prefissato e sottolineando, indirettamente, alcune mancanze del governo precedente: “Ci impegniamo a informare i cittadini con sufficiente anticipo, per quanto compatibile con la rapida evoluzione della pandemia, di ogni cambiamento nelle regole”. Non manca, comunque, un momento più emotivo, definito excusatio , che contribuisce a umanizzare la figura dell’oratore, esteticamente e formalmente più di marmo di quella di Conte: “…vorrei dirvi che non vi è mai stato, nella mia lunga vita professionale, un momento di emozione così intensa e di responsabilità così ampia”.
La narratio e l’indignatio
Dopo l’esordio, prende parte l’esposizione dei fatti, il cui scopo è quello di informare il pubblico. Condizione necessaria è che la narratio si faccia ascoltare volentieri, sia interessante e non annoi; deve rispettare, quindi, i principi riassunti nei verbi latini docere, cioè informare e delectare, cioè piacere.
Aspetto centrale della narratio è la digressione, cioè un’occasionale deviazione dal discorso principale per trattare temi aggiuntivi, ma pertinenti. Una tipologia specifica di digressione è l’indignatio, oggi chiamata invettiva: è un’accusa verbale dell’oratore contro l’accusato e ha l’obiettivo di suscitare nel pubblico una forte riprovazione verso quest’ultimo. È su questo preciso aspetto che si concentra una delle maggiori differenze tra i due Presidenti.
Nei discorsi di Conte si notano pochissimi episodi di indignatio, solo due in quattro mesi, se ci si rifà al periodo del lockdown. Il primo è nel discorso dell’8 marzo 2020, in cui egli spiega nel dettaglio il procedimento di approvazione di un DPCM in risposta alla circolazione di una bozza, non definitiva, che i giornalisti hanno pubblicato il giorno precedente. In questa digressione, Conte rivolge un’accusa generale ai giornali che hanno violato la segretezza della bozza non tanto per demolire la loro autorità in sé, quanto più per conquistare la fiducia del pubblico nei confronti dell’operato politico e della trasparenza dei DPCM. La seconda indignatio è nel discorso del 10 aprile 2020, in cui Conte critica i colleghi Giorgia Meloni e Matteo Salvini (due maestri dell’indignatio) per la diffusione di inesattezze riguardo al MES; frase celebre di questo discorso è: “Questo governo non lavora col favore delle tenebre. Questo governo guarda in faccia gli italiani e parla con chiarezza”.
Nei pochi discorsi di Draghi, invece, si nota una propensione maggiore verso l’indignatio e, in generale, verso uno stile comunicativo più diretto. Già nell’estratto riportato precedentemente, in cui sottolinea la sua contrarietà all’idea secondo cui il suo governo sia stato reso necessario dal fallimento della politica, esprime chiaramente: “Mi sia consentito di non essere d’accordo. Nessuno fa un passo indietro rispetto alla propria identità ma semmai, in un nuovo e del tutto inconsueto perimetro di collaborazione, ne fa uno avanti nel rispondere alle necessità del Paese, nell’avvicinarsi ai problemi quotidiani delle famiglie e delle imprese che ben sanno quando è il momento di lavorare insieme, senza pregiudizi e rivalità”.
Non manca, quindi, una chiara ed immediata presa di posizione del nuovo Presidente del Consiglio dei Ministri nel definire con puntualità il proprio ruolo; la novità di questo intervento, oltre alla sua schiettezza, è il tempismo: si tratta, infatti, del suo primo discorso da Presidente del Consiglio. Un altro esempio di questo stile diretto e senza troppi giri di parole, che a volte si configurano in vere e proprie indignatio, è nella Conferenza Stampa dell’8 aprile 2021: “Non condivido assolutamente il comportamento del Presidente turco Erdogan nei confronti della Presidente, credo non sia stato un comportamento appropriato[…] E qui la considerazione da fare è che con questi – chiamiamoli per quello che sono – dittatori, di cui però si ha bisogno per collaborare, uno dev’essere franco nell’esprimere la propria diversità di vedute” [si riferisce al cosiddetto sofagate che ha coinvolto la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, e il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, ndr].
Impossibile non citare, poi, l’episodio degli psicologi, sempre dell’8 aprile: “Figliuolo uscirà con una direttiva sulle Regioni, smettetela di vaccinare chi ha meno di 60 anni, i giovani, i ragazzi, gli psicologi di 35 anni!” Questa frase, che poi è stata corretta e riformulata dallo stesso Draghi, esprime in modo sintetico ed efficace lo stile comunicativo del Presidente: brevità, schiettezza, lessico quotidiano sono i tre pilastri dei suoi discorsi. Lo stile incisivo, sostenuto dal verbo “smettetela” tipico del discorso quotidiano, culmina con questa frase in un’esclamazione del tutto estranea allo stile dei discorsi a cui ci aveva abituati Conte. Attenzione, non si parla di una scala di valori, non c’è un meglio o un peggio: ci sono solo differenze, scelte e attitudini personali che incontrano e si adattano alla situazione e alle esigenze del momento.
Stile e lingua
I discorsi di Giuseppe Conte e di Mario Draghi si inseriscono all’interno di un profondo cambiamento del linguaggio dei politici, avvenuto principalmente tra gli anni ‘80 e ‘90 del secolo scorso. Craxi, Pannella, Bossi e Berlusconi, infatti, sono stati i protagonisti di quello che può essere definito passaggio dal cosiddetto politichese al gentese. Da uno stile dotto e aulico, sia dal punto di vista lessicale che morfo-sintattico con periodi lunghi e complessi, negli ultimi due decenni del Novecento si è passati a un nuovo linguaggio, che adotta il lessico della quotidianità, con periodi brevi e poco complessi, al fine di favorire la comprensibilità da parte del pubblico.
Sia con Conte, ma ancora di più con Draghi, è evidente la scelta di usare parole principalmente e quasi unicamente della lingua italiana, con pochissimi forestierismi; si dice, tecnicamente, che è stata rispettata la puritas, cioè l’assenza di barbarismi e arcaismi. Il lavoro compiuto soprattutto da Draghi è per sottrazione: di aggettivi, sostantivi, avverbi non necessari.
“È semplicemente il governo di un paese. Non ha bisogno di alcun aggettivo che lo definisca” dice nel discorso d’insediamento del 17 febbraio. Una non-definizione sottile che serve per definire, strano gioco di parole, il proprio governo.
Abbiamo iniziato questo viaggio nella retorica con una frase di Conte e finiamo con una di Draghi, così come sta accadendo per la gestione della pandemia in Italia. Perché è vero, abbiamo i vaccini, le misure di distanziamento e le mascherine, strumenti importantissimi. Ma le parole, le armi più silenziose e meno materiali, sono in grado di fare un rumore inaspettato. Prendiamocene cura.