Alla fine sono tornati davvero, e non ci avevano mai fatto aspettare così tanto. Sette anni dal bulimico exploit bipartito di «Endkadenz» (2015), doppio disco innervato ora di scampoli geniali e ora di riempitivi che sembravano poter avere un senso solo nell’insondabile mente del trio. Per ogni «Sci Desertico» e ogni «Nevischio» c’erano quasi altrettanti pezzi difficilmente decifrabili. C’era elettronica e c’era rock, c’era melodia e c’era rumore, c’era tantissimo e allo stesso tempo molto mancava. Quel duplice lavoro era come un compasso impazzito che provasse a delimitare lo spazio della loro musica sondandone allo stesso tempo anche i confini, senza mai preoccuparsi di dove potesse sbattere la testa. Come se il famoso spot Mediolanum l’avesse girato un Doris ubriaco con in mano un bastone da rabdomante. Da lì in poi, il silenzio.
Nel frattempo sono fioriti interessanti progetti collaterali: l’afrobeat mutante del progetto I Hate My Village per Alberto Ferrari (insieme a Adriano Viterbini dei Bud Spencer Blues Explosion e Fabio Rondanini dei Calibro 35), il prog-rock cantautorale dei Dunk e il rock primigenio degli Animatronic per Luca Ferrari (con Luca Terzi e Nicola Atzori, li avevamo intervistati qui). Poi progetti collaborativi, come lo split EP con Iosonouncane nel 2016, e persino un’incursione cinematica con «America Latina», omonima soundtrack del film dei fratelli D’Innocenzo lo scorso anno.
Non era facile indovinare dove sarebbero andati a parare i fratelli Ferrari e Roberta Sammarelli con un eventuale nuovo disco: se avrebbero proseguito sul versante di una prolissa valanga creativa senza freni inibitori e dall’ispirazione altalenante, continuando sul crinale di «Wow» o appunto dei due «Endkadenz», oppure se sarebbe stata la voce della ragione e della sintesi a prevalere. Alla fine «Volevo Magia» è arrivato tra le nostre orecchie e tutto si è fatto più chiaro. Ma solo all’inizio.
La scaletta sembra bella compatta a una prima occhiata: tredici brani di media durata. Sappiamo però che questa apparente sintesi è frutto di un grande lavoro di cernita e cesura sopra al solito profluvio di idee e composizioni. Sono state due le sessioni di composizione e registrazione dei pezzi, una pre e una post pandemia. «Tantissime le tracce a disposizione, quasi altrettante quelle poi scartate dalla tracklist finale, lasciando da parte – a detta di Luca – quei pezzi la cui chiave non veniva trovata immediatamente». Nella testa di Alberto il lavoro concluso «si sarebbe dovuto attestare addirittura su solamente sei-otto tracce» . Alla fine non ce l’hanno proprio fatta a passare così radicalmente all’altro estremo, ma lo sforzo finale è stato comunque decisamente apprezzabile.
Ma come suona quindi questa nuova anelata magia? Sicuramente la volontà di “asciugatura” non ha riguardato solo l’aspetto quantitativo. Lasciata quasi completamente da parte l’elettronica, anche il pianoforte è sottoutilizzato: la stragrande maggioranza delle tracce di «Volevo Magia» incarna uno spirito puramente rock, con formazione chitarra, basso, batteria e voce, pochissimi orpelli aggiuntivi (ad eccezione di qualche sfondo più orchestrale). Gli sperimentalismi sonori sono ben pochi, ma si percepisce immediatamente viva e vibrante la voglia di suonare. Tira un’aria da sala prove nello scantinato, chiusi a jammare in libertà e registrare quel che viene. In tal senso questo nuovo episodio dei Verdena è forse il loro disco più “dritto” e meno psichedelico.
Ciò non toglie che le melodie siano tutt’altro che immediate, e pure i testi restano sul consueto versante di libera interpretazione da parte dell’ascoltatore: possono significare tutto e niente, ma di sicuro assecondano la musica e va bene così. A sentire Alberto sono i suoi amati Beatles la coordinata stilistica principale a livello di ispirazione, ma se di «White Album» a modo loro i tre bergamaschi ne hanno già fatti (e probabilmente più di uno), qui ci troviamo davanti più che altro a un «Revolver» apparentemente senza pezzoni immortali. Apparentemente.
Perché se a un primo superficiale ascolto arriva la già detta “drittezza” del disco e la sua anima orgogliosamente rockeggiante, i pezzi salgono ascolto dopo ascolto, con andazzo esponenziale. Così pian piano ci si accorge che questo è in realtà un lavoro pieno zeppo di idee e di riferimenti incrociati, ma che ben lungi dal risolversi in un mero giochino citazionista fa sostanzialmente quello che «Necroide» fece per i Bachi da Pietra nel 2015: fare un po’ piazza pulita di un certo sovraffollamento stilistico degli ultimi tempi, riportando i suoi autori alle origini e facendo loro ritrovare una sorta di primitiva gioia nel suonare quello che gli pare e piace senza farsi troppe domande autoriali.
Il disco si apre con «Chaise Longue», primo singolo estratto (tra l’altro scelto un po’ a sentimento poco prima della pubblicazione dell’album). È un biglietto da visita immediatamente sfizioso per quanto non esaustivo: tamburelli di sfondo e la chitarra di Alberto a staffilare una melodia vocale memorabile, con un testo al solito sospeso tra onirismo, nonsense e pura associazione fonetica («è un sogno e sì dovrei»).
Poi si cominciano veramente a gonfiare i muscoli: «Paul e Linda» è un bluesaccio come si facevano una volta, «Pascolare» un bisonte stoner che caracolla fangoso tra i pendii della val Seriana, e suona… beh suona come se i Verdena si travestissero da cover-band dei Bongzilla. Poi c’è «Crystal Ball», tra i pezzi più interessanti del disco: un testo che potrebbe parlare di droga oppure di amore oppure di niente di particolare (al solito, fate voi), su cui si staglia protagonista soprattutto la batteria di Luca; leit-motiv anche di «Dialobik», pezzone su tutti (forse la «Derek» di questo disco), dove una chitarra acidissima poggia su un drumming che è praticamente un afrobeat sotto anfetamine e in certi sprazzi sembra quasi di stare sentendo i Jane’s Addiction. «Cielo Super Acceso» è un altro degli apici qualitativi, a richiamare vagamente dei Notwist stralunati e rigurgitanti.
Non mancano comunque anche i pezzi più melodici: «Certi Magazine» è infarcita di orchestrazioni (archi e piano soprattutto) che scivolano in cuffia ora da destra e ora da sinistra, «Sui Ghiacciai» è una gradevole ballatina che però finisce tagliata di netto con una mannaia per lasciare spazio al siluro hc punk della titletrack. Convince il bel soul-funk di «Fino a Notte», che riprende l’andazzo di una «Heaven’s Only Wishful» di MorMor, e chiude il tutto lo spettrale disarmo 70’s di «Nei Rami». È difficile trovare un brano manifesto che spicchi su tutti, e altrettanto lo è trovare una chiave di lettura univoca di fronte a un lavoro del genere.
I Verdena sono sempre sé stessi: disallineati da qualsiasi cosa, praticamente eremitici in una contemporaneità musicale (e non solo) fatta di collaborazioni a gettone per cavalcare gli algoritmi, condivisioni via social e trend che si susseguono a velocità imprendibili. Loro invece restano invisibili e scollati da tutto. Si trincerano nella loro non-voglia di comunicare, perché alla fine in questo presente non può esserci niente da dire che tutti già non sappiamo. Questo disco (bello, intenso, a suo modo divertente) è forse la definitiva presa di atto di questa solitudine inevitabile, il rifugio in un rock che può ormai essere solo porto sicuro e non più rivoluzione di alcunché. Senza per questo essere nostalgici o passatisti, ma solo molto tristi e magari un pochetto rabbiosi. «La magia che cerchiamo – dice Alberto – è a questo punto qualsiasi magia, perché non ce n’è più tanta in nessun posto. È sempre meno magica la situation… quindi speriamo che arrivi qualcuno a salvarci».