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Vasco Brondi a «Filagosto» ci porta dentro al suo pop impopolare

Intervista. Il prossimo 30 luglio, a Filago, il cantautore ferrarese aprirà la ventiduesima edizione del festival. Un gradito ritorno dopo dieci anni, che darà mondo a Vasco Brondi di presentare i brani del suo ultimo album e cantare i pezzi più storici

Lettura 6 min.
_Vasco Brondi (Foto Valentina Sommariva)

In un’epoca in cui le città e i loro ritmi frenetici sembrano divorare l’anima dei loro abitanti, c’è ancora qualcuno che riesce a catturare e dare forma a quel senso di smarrimento e speranza che ci accomunano. Vasco Brondi ha saputo trasformare le sue inquietudini in canzoni, che diventano rifugi per chi cerca un senso nel caos. Fin dal suo esordio ha tracciato mappe emotive di paesaggi interiori ed esteriori, instaurando un dialogo profondo con chi si sente perso tra le luci artificiali delle nostre città, ma anche con chi arriva dalla provincia e cerca un posto nel mondo. Una traccia che resti in questi tempi al neon in cui passiamo più tempo a guardare gli schermi che a guardarci negli occhi.

Ascolto Vasco Brondi da quando avevo più o meno quindici anni. Allora c’erano Le Luci della Centrale Elettrica che io, nella mia noncuranza di adolescente, immaginavo come un gruppo. Finché poi, da adulta, non ho scoperto che fondamentalmente Vasco ha sempre cantato da solo, celandosi dietro il nome di un collettivo. In tutta onestà, lui stesso ha raccontato che ha provato a formare una band, ma che poi tutti a un certo punto se ne andavano dicendo che per il suo modo di cantare era bravissimo anche da solo.

Ironia a parte, la riconoscibilità del suo cantautorato, figlia di parole a volte urlate e altre sussurrate, ha disegnato un percorso artistico coerente e tortuoso in cui la rabbia dei pezzi punk degli esordi, le petroliere, le chitarre stridenti, hanno fatto spazio a suoni rurali, violini e fisarmoniche. Una direzione che dal momento in cui Vasco ha alzato gli occhi al cielo per mostrarci le sue «Costellazioni» è stata confermata da «Terra», uscito nel 2017 che è un album corale, pieno di suoni tribali e atavici. Complici anche il buddismo e lo yoga di cui Brondi si interessa fino a diventare insegnante.

Il 2021 è l’anno in cui Vasco esce allo scoperto e ci mette semplicemente il suo nome e cognome, tornando con un disco che non a caso si intitola «Paesaggio dopo la battaglia». Un lavoro interamente autoprodotto con una pandemia di mezzo e una Panda in copertina che avanza su una stradina di campagna fuori Ferrara, lasciandosi dietro una tempesta, come a voler rappresentare un’umanità che ha dovuto fare i conti con la sua provvisorietà.

A marzo di quest’anno Vasco ha pubblicato il suo ultimo disco «Un segno di vita», in cui si è preso il rischio di cimentarsi con la forma “canzone”. Un album che parla di fuochi, che si tinge di rosso e che rappresenta gli estremi: l’amore, la guerra, le città silenziose e le strade pericolose. Un disco figlio della volontà di raccontare la contemporaneità, senza mai dimenticare la scintilla di eternità che deve esserci in ogni cosa.

Dentro ci sono persone, alberi, laghi e vulcani, tutti incontrati durante il corso delle sue sessioni di scrittura: «Ci sono le città, ma anche le montagne, le colline, la cascate, i laghi, il mare, le strade tortuose, i viali, le stelle e i fanali delle macchine» racconta il cantautore. Con questo bagaglio emotivo e artistico, ci approcciamo al concerto di Vasco Brondi in programma martedì 30 luglio alle 22.15, uno spettacolo che alterna canzoni e citazioni, riferimenti e mantra.

CP: Qualche settimana fa sono stata al tuo concerto a Verona. Hai raccontato quanto fosse stato difficile all’inizio della tua carriera farti conoscere e riuscire a uscire dal contesto della provincia. Oggi sei alle prese con un tour che ti sta portando per tutta l’Italia. Quale pensi sia stato il passo decisivo che ti ha permesso di farti conoscere a un pubblico più vasto? Identifichi nel tuo percorso artistico delle “crisi di passaggio”?

VB: Alla fine penso che non ci siano stati momenti eclatanti. È proprio così: ho messo una canzone dietro l’altra e ho seguito la strada, senza indicazioni, aspettando di vedere cosa succede. A un certo punto ho deciso di chiudermi tutte le porte che mi portavano altrove e mi sono obbligato a vivere esclusivamente di musica. Però, una cosa che ho capito è che non esiste l’Eldorado, non esiste l’idea di perseguire un obiettivo a tutti i costi. Credo molto nel seguire il proprio percorso e vedere come va. Nel mio caso, mi colpisce che anche dopo 15 anni, anzi, ormai sono più di 17 anni, il mio pubblico si sia gradualmente, ma proprio gradualmente, allargato. Anche il mio primo disco, che ha avuto un grande seguito immediato, era frutto di anni di gavetta. Stavo già suonando nei piccoli locali della provincia da qualche anno, in qualche modo mi ero già preparato al fatto che avrei potuto iniziare a fare concerti con più persone. Lo sapevo già, infatti, quando ho iniziato a farlo. Sicuramente, aver avuto il supporto di altri artisti è stato per me importante. Ho aperto quasi subito i concerti di Moltheni, degli Afterhours, dei Tre Allegri Ragazzi Morti. Quello di Jovanotti è stato sicuramente importante: poter suonare già davanti a un pubblico dopo aver suonato sempre in piccoli bar ha sicuramente fatto la differenza.

CP: Hai detto che questo ultimo disco è pieno di segni di vita. Ti chiedo: quali sono i segni di vita che hai colto quando il tuo disco è diventato di tutti?

VB: Ho visto che ciò che mi ha guidato in questo disco è un po’ quella frase di Calvino, nelle «Città invisibili», «L’importante è saper riconoscere tutto ciò che, in mezzo all’inferno, non è inferno, farlo durare e dargli spazio.» È una cosa condivisa dalle persone che mi seguono: non vedere questi tempi solo come tempi bui ma, anche se ci sembra che lo siano, impegnarsi per schiarirli, per dare segni di vita. Ho sentito che, in questo senso, il disco, portato dal vivo, ha qualcosa di liberatorio. Diventa una specie di rito rintracciare questi segni di vita.

CP: Tra le canzoni che ti hanno ispirato nella scrittura di questo disco hai citato «La crisi» dei Bluvertigo e «Stelle buone» di Cristina Donà, tra le altre. C’è una canzone grazie alla quale hai capito che avresti voluto fare musica?

VB: Ci sono state varie canzoni che mi hanno influenzato. Mi ricordo proprio, da ragazzino, la prima volta che ho sentito «Adelante Adelante» di De Gregori, la prima volta che ho sentito «Smisurata preghiera» di De André, «Il numero 0» di Claudio Lolli, la prima volta che ho sentito i CCCP. Suonavo punk in una band, ero il bassista, ma ascoltavo di nascosto i cantautori. Mi ricordo di un live acustico degli Afterhours, dove ho capito che si potevano anche contaminare questi generi. Non so se è stato ciò che mi ha portato a fare la mia musica, ma sicuramente è stato molto d’ispirazione.

CP: In che senso il tuo è un pop “impopolare”?

VB: Nel fare questo disco, la mia idea era che la cosa più sperimentale che potessi fare, dopo tutti quelli che ho già fatto, fosse lavorare con la forma canzone più canonica. Paradossalmente, per me è una cosa sperimentale. Così come lavorare con sonorità che si possono definire, in qualche modo, più pop, anche se poi, filtrate attraverso il mio stile, diventano un pop un po’ impopolare, frainteso e, in un certo senso, anche rovinato da me. Quindi, rielaborato. L’ho chiamato un pop impopolare perché è quello che è: non è diventato un fenomeno di costume.

CP: Le tue canzoni hanno sempre avuto una dimensione per così dire “politica”, “partecipativa”. Alla luce di quello che accade oggi nel mondo che significa, secondo te, partecipare?

VB: Per me è importante che le canzoni, anche quando sono intime, abbiano sempre un sottofondo legato al mondo contemporaneo, che includa ciò che accade fuori. Anche quando si parla di una storia d’amore, c’è come un sottofondo delle notizie di quello che accade attorno a noi, oltre a quello che accade dentro di noi. Partecipare vuol dire semplicemente vivere la nostra vita attivamente, entrare nelle cose del mondo, andare nella direzione di aprirsi agli altri. Non a caso Jung diceva che è una grande illusione quella di credersi separati dagli altri. Partecipare significa cercare di superare queste illusioni.

CP: Nella canzone «40 km» dici che la giovinezza è una corsa in ciao sotto la pioggia. Cos’è l’età adulta?

VB: Comincio a pensare che anche l’età adulta lo sia. In quella canzone dove parlo di una corsa sotto la pioggia, comunque, sto andando verso casa di qualcuno. Anche se questa figura può sembrare scomoda, in qualche modo indica che stai andando da qualche parte, che non è un viaggio fine a sé stesso.

CP: Che ruolo hanno lo yoga e la meditazione nel tuo processo creativo?

VB: Penso che non ci sia una vera divisione tra le pratiche spirituali e le pratiche della vita. In particolare, io pratico la meditazione Vipassana e quella trascendentale. David Lynch ha scritto un libro intitolato «Catching the Big Fish», tradotto in italiano come «In acque profonde». Il senso è che è in acque profonde che si pescano i pesci più grossi. Queste pratiche, che aiutano a quietare mente e cuore, permettono di rendere l’acqua dentro di noi più trasparente, per così dire. In questo modo, possiamo vedere più in profondità e arrivare a cose più interessanti di quelle che stanno in superficie, in mezzo alla nostra proliferazione mentale.

CP: Nel manuale di «Pop impopolare», che è una sorta di diario di scrittura che accompagna questo disco, descrivi la tendenza dell’essere umano ad allontanarsi dalla natura, finendo per non conoscere il nome degli alberi e delle piante che ci circondano. Tu come ti opponi?

VB: Credo che sia importante, molto banalmente, anche uscire dalle città. Le città sono fatte da esseri umani per esseri umani e spesso non ci sono neanche più i piccioni. È fondamentale tornare al nostro vero habitat, quello che è stato per centinaia di migliaia di anni. Io stesso, ho registrato questo disco anche in alta montagna, perché è importante ritrovare la giusta proporzione, sentirsi minuscoli e di passaggio. Quando torni in cima, realizzi quanto siano piccoli i nostri problemi umani. È molto importante avere a che fare con tutto ciò che esiste al di là del nostro mondo umano e delle costruzioni umane.

CP: Cosa diresti al ragazzo che eri quando hai cominciato?

VB: Gli direi di seguire la strada che nessuno gli indica, di avere il coraggio di seguirla e che va bene così.

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