Benjamin Royaards, scrittore dei Paesi Bassi, metà olandese, metà belga, vive a Bergamo. Ha visto per Eppen le prime quattro serate del Donizetti Opera .
M i sembrava una proposta interessante partecipare all’apertura del Donizetti Opera e scrivere un articolo al riguardo. Anche se non sono un esperto di teatro d’opera, sono comunque nato in una famiglia di teatro, con entrambi i genitori, due nonni, tre zii, due bisnonni attori/registi olandesi e belgi. Perciò a teatro mi sento a casa. Da bambino giocavo dietro le quinte. Mi ricordo che una volta sono entrato accidentalmente sul palcoscenico in piena performance. Non fu una buona idea ma il pubblico si mise a ridere quindi prima di andarmene, mi inchinai davanti a loro . Una sensazione meravigliosa. Un’altra volta, giocando con le leve, lasciai calare per sbaglio il sipario durante il culmine della scena finale.
Il primo appuntamento giovedì sera al bellissimo Teatro Sociale in Città Alta. Personalmente il mio tempio teatrale preferito a Bergamo, perché vive nella storia. Circondato da facciate con persiane dietro le quali una volta riposavano gli splendidi saloni dell’aristocrazia, le porte blasonate, i terrazzi, i cortili. Tutti luoghi parlanti – dove la luce del giorno non penetra mai completamente – che mi sussurrano i loro ricordi.
“ C’erano una volta due bergamaschi ”, lo spettacolo di apertura del festival, era un interessante pot-pourri delle vite di Gaetano Donizetti con protagonista il grande basso contemporaneo Alex Esposito , una sorta di fil rouge della serata. Più il buio è profondo, più la luce è bella, più i successi e le lotte della vita narrate dalle opere emergono in nome dell’arte. La serata era principalmente una grande vetrina per la Bottega Donizetti che raduna voci molto belle. Soprattutto i duetti hanno toccato le corde più sensibili della sala. Il pubblico, un teatro piacevolmente pieno, era entusiasta. Lunghi applausi. Una bella prima serata, tutti soddisfatti.
Ora, creare una miscela avvincente di opere non è facile, ma ci sono riusciti. “ L’opera è vita, è cultura, e fa bene al cuore ”, diceva Esposito in un’intervista di qualche anno fa, e ha ragione. L’obiettivo dell’organizzazione del Donizetti Opera è chiaramente far arrivare questo messaggio anche ai giovani. Un’iniziativa nobile, ma non semplice.
Ero seduto accanto ad una signora affascinante anche solo per come era arrivata in Italia: con il mitico Orient Express ! “ Più sicuro che volare e molto più confortevole ed elegante ”, mi ha detto. Concordo. È venuta appositamente dalla città dell’amore (Parigi) alla città dei casonsei , per il Festival Donizetti. Conosceva il grande direttore d’orchestra Gianandrea Gavazzeni . Pure il leggendario violoncellista Mstislav Rostropovich faceva parte della sua cerchia di amici. Da grande conoscitrice di musica, anche lei sembrava sodisfatta della serata.
Secondo appuntamento, venerdì sera, “ L’elisir d’amore ”, melodramma giocoso, opera buffa. La storia d’amore di Adina e Nemorino, una storia con lieto fine, ereditando anche una fortuna dello zio. Ci sono opere decisamente più tragiche.
Lo spettacolo d’amore si svolgeva nel rinnovato Teatro Donizetti in città bassa, e devo ammettere che anche se il Teatro Sociale è situato in un luogo davvero magico, come un gioiello in un antico portagioie, al Donizetti ti senti veramente a teatro. Fuori una grande facciata splendidamente illuminata con davanti lunghe code di amanti dell’opera. Una fanfara per rendere più piacevole l’attesa, e in fila un guazzabuglio di lingue: tedesco, inglese, francese, spagnolo. Avevo la sensazione che l’intero mondo dell’opera internazionale fosse presente.
All’interno, soffitto mozzafiato, decori in foglia d’oro, palchi misteriosi da sogno, qui lontani parenti di nobili riconoscibili dal loro stile casual chic : giacca blu leggermente troppo lunga con bottone frontale dorato, camicia a righe con papillon e una rosa appuntata al petto: un’eleganza d’antan .
Nei primi posti di platea i veri intenditori d’opera, signori con lunghi capelli bianchi in abito nero con papillon farfallino e sottile sciarpetta bianca accompagnati da eleganti signore con preziosi gioielli e piccoli binocoli da teatro. Al centro un bel mix di appassionati d’arte in mise elegante e ricercata: uomini con mantello, kilt e grande santa croce nera all’orecchio.
Una voce si distingueva nella serata di venerdì: quella di Javier Camarena , tenore messicano nella parte di Nemorino. La sua voce era intensa come un uragano ma morbida come un angelo. Il momento più bello in assoluto è stata la scena in cui Nemorino con il cuore spezzato vagava per il cortile del villaggio deserto con una rosa rossa tra le mani . Le sue lacrime vocali scorrevano libere e copiose, come la pioggia dopo un temporale.
Esiste una registrazione della sua esecuzione di “ Nessun Dorma ’’ eseguita dall’orchestra Sinfonica di Xalapa: magnifica. Camarena è uno fra i pochi artisti che portano una performance ad un livello ulteriore. E questo mi porta alla mente una recensione del marzo 1909, scritto sul mio bisnonno Willem Royaards , per la rivista olandese De Kunst (L’Arte):
“ È semplicemente sorprendente come una performance diventi completamente diversa attraverso la semplice collaborazione di Willem Royaards! È monumentale in tutto e per tutto. Il suo modo di parlare, la sua formazione sonora, i suoi pianissimi e i suoi forti sono tutti scolpiti, grandi e forti, onesti e convinti, è un suonatore di forte ispirazione, un narratore che dà alla parola suono e colore, elaborando in tutte le sfumature, in ogni sillaba. Dalla parola forma il carattere di un ruolo e dal tono di quella parola divide le frasi, le sistema, le innalza a volumi sonori di potenza clamorosa. Royaards è lo scultore tra gli attori ”. Con Camarena ho avuto una sensazione simile.
Sabato sera: ora di risalire al piano sopra, nella vecchia Bergamo sulla collina, Città Alta, che si riposava tranquillamente in tutta la sua antica bellezza dietro la cintura di pietra veneziana. Ogni volta che salgo noto che il tempo muta visibilmente il suo battito . Lassù si vive una diversa dimensione del tempo. In scena “ Medea in Corinto ”, melodramma tragico dal mito greco di Medea del bergamasco Simon Mayr , qui eseguita in versione moderna. Avevo la sensazione di essere presente ad uno spettacolo teatrale di Samuel Beckett o Terence Rattigan , ma in versione operistica. Quattro palcoscenici galleggianti mobili: camere da letto, soggiorno e cucina. Interessanti i costumi dei mimi, soprattutto quelli della banda del purgatorio. Bella la musica diretta magistralmente dal mio quasi contemporaneo Jonathan Brandini . Le sue mani fluttuavano sopra le teste del pubblico e fornivano una dimensione alta e altra .
Ho uno simpatico aneddoto su Brandini. Qualche giorno fa mentre bighellonavo per le strade di Città Alta incontro Cristina , la mamma di un mio caro amico che stava raccogliendo frutta e fiori davanti a casa sua in via degli Orti. Spesso riceve i complimenti per il suo incantevole giardino. Mi racconta che una bella mamma, due bimbi ed il loro papà giorni prima si sono soffermati per ammirare i suoi fiori e dalla conversazione scopre che il signore è un direttore d’orchestra. Viene altresì a sapere che la famiglia toscana è in città perché Jonathan Brandini dirigerà “Medea in Corinto”. Ha raccolto subito qualche kiwi dalla sua enorme pianta per regalarli alla famiglia assicurando che il papà sarà in ottima forma per lo spettacolo .
Poco prima di mezzanotte. Bravi! Bravo! Brava! Brave! Le quattro variazioni più significative dell’entusiasmo del pubblico italiano. All’uscita gli antichi selciati di Piazza Vecchia, scintillanti al chiaro di luna, immersi da una densa nebbia misteriosa come presagio del gelo della notte, mi avvolgono. Signore e signori elegantemente vestiti escono dal teatro ballando sull’ebbrezza di un mondo di fantasia che hanno potuto assaporare per qualche ora, alla ricerca del loro autista e carrozza illuminata da fiaccole. Altrove il mondo conta ormai i nanosecondi, qui in Città Alta il tempo del maniscalco ticchetta ancora . Scrivere è sognare.
Domenica. Concludendo su una nota più leggera, “ La Fille Du Regiment ” da e nel Donizetti. Opera comica in lingua francese con première all’Opéra-Comique di Parigi nel 11 febbraio 1840. Mi aspettavo un vistoso reggimento francese del periodo napoleonico. Stivali, pantaloni militari bianchi, gilet blu/rosso con spalline e bottoni in ottone lucido e cappello con piuma. Con un’ambientazione corrispondente. Grande fu dunque il mio stupore quando si presentò un reggimento in strani abiti gialli da “Ghostbusters” con i pennelli in mano invece del moschetto con la baionetta , ambientato in un setting da giungla sudamericana. Mi è parso difficile legare l’immagine e l’ambientazione scenografica con la partitura musicale per tutta la durata dello spettacolo. Un eccessivo trionfo di colori caraibici mi ha distolto dal libretto originale: sono un classicista.
D’altro canto questa è stata di gran lunga la rappresentazione più bella del festival in termini di canto e musica. I personaggi principali Marie, il suo amato Tonio e il sergente/padre Sulpice formavano un bellissimo triangolo . Avevano tutti voci particolarmente interessanti ed emozionanti. Dopo l’aria di Tonio “Ah! mes amis, quel jour de fête” il tenore americano John Osborn ha ricevuto molti applausi, seguito da un bis. Un vero trionfo. Anche durante l’ultima romanza prima dell’intermezzo, quando Sara Blanch, la bellissima soprana spagnola, interpretando Marie dice “ adieu ” al suo amore, al reggimento e al padre l’ovazione del pubblico è meritata: brava! Senza ombra di dubbio il pubblico più entusiasta degli ultimi quattro giorni.
Voilà , missione compiuta. È stato un weekend intenso, ma bello. Teatro, opera, musica: non c’è balsamo migliore per l’anima dell’uomo. E ora torniamo al silenzio.