Nell’estate del 2003 i Radiohead, all’apice della loro fama, tennero un concerto al Lazzaretto di Bergamo. Era uno dei live – in luoghi particolarmente belli del nostro Paese – che la band di Oxford portò in giro dopo la pubblicazione di «Hail to the Thief». Un disco bello ma forse un po’ “sfortunato”, perché veniva dopo quella doppietta strepitosa – e per certi versi rivoluzionaria nel modo d’intendere una canzone popular – composta da «Kid A» e e «Amnesiac», ma anche perché con il senno di poi l’«Ave al Ladro» veniva prima di un altro apice della carriera dei Radiohead, cioè «In Rainbows».
Chi c’era a quell’evento per certi versi incredibile e mitologico (i-Radiohead-a-Bergamo) e, come il sottoscritto, ha un rapporto molto intimo e forte con la musica, ricorderà che in apertura ai Radiohead c’ere un gruppo che veniva da Duluth, Minnesota, lo stesso luogo di nascita di Bob Dylan, e che allora era conosciuto solo dai «veri intenditori» (chi legge decida se annoverarsi o meno in questa definizione): i Low. Allora io avevo vent’anni e i Low non sapevo nemmeno chi fossero. Preso dall’entusiasmo per l’arrivo dei Radiohead in città non mi ero nemmeno preoccupato di andare ad ascoltare qualcosa su di loro, per capire chi erano, cosa facevano, se mi sarebbero piaciuti. C’erano i Radiohead, chi se ne frega del resto.
E invece ricordo perfettamente che i Low arrivarono sul megapalco del tour dei Radiohead che era ancora giorno, con la loro formazione sostanziale, stretti stretti fra gli strumenti degli headliner, solamente in tre: Zak Sally al basso, Alan Sparhawk alla chitarra e alla voce e Mimi Parker alla batteria (decisamente essenziale) e alla voce. Quella Mimi che è morta qualche giorno fa per un cancro e per la quale sto scrivendo queste parole. Il loro era un modo lento e potente di fare musica, con ritmi cadenzati, climax ascendenti e impasti vocali che sapevano di cielo. I Low a quel tempo avevano pubblicato «Trust», il loro sesto disco, ben accolto dalla critica, le cui canzoni erano state l’ossatura del breve concerto di apertura ai Radiohead. Fu il disco che mi procurai quasi subito e che insieme al tour con i Radiohead li fece conoscere un po’ di più al pubblico – quantomeno nella mia percezione, la quale può essere sbagliata in quanto mia e affidata alla memoria di quasi vent’anni fa.
Poi arrivò il 2005 e i Low pubblicarono quello che secondo me è il loro miglior disco di sempre, «The Great Destroyer», che si beccò la copertina del Mucchio Selvaggio (qui trovate l’intervista che Federico Guglielmi fece a loro) e li fece conoscere definitivamente (sempre secondo la mia percezione delle cose) a quella comunità di musicofili attenti alle novità e alle evoluzioni di band particolarmente amate. «The Great Destroyer», in particolare, conteneva due canzoni che da quel momento in poi per me sarebbero state le due canzoni dei Low: «Pissing» (reinterpretata in modo splendidamente tragico anche da Carla Bozulich in un disco dell’anno dopo, «Evangelista») e soprattutto «Silver Rider».
«The Great Destroyer» divenne da subito uno di quei dischi che mi accompagnavano nelle mie passeggiate solitarie di pianura, quando nel paesaggio piano, vuoto e sconfinato cerchi una parentela con ciò che senti. Un qualcosa che riguarda quello che ti può dare in più certa musica rispetto ad altra, ciò che ti forma insieme a tutte le esperienze che hai fatto, le persone che hai incontrato amato odiato, i libri che hai letto, i film che hai visto, gli altri dischi che hai ascoltato: insomma tutte quelle cose che ti tieni stretto per la vita. Non era solo un disco «The Great Destroyer», era come una preghiera sferragliante, un fulmine di spada verticale che separava ciò che c’era da ciò che mancava, riempiendo quest’altra parte di qualcosa di bello, intenso e necessario.
Erano Mormoni i Low – e caso vuole che di questa cosa abbia parlato di recente in tutt’altro contesto – dunque i loro brani, a partire dai testi, risentivano della loro fede. Ma la loro non era una fede pacificata, tutt’altro, era una fede che sapeva comunicare oltre i precetti di una religione tutt’altro che aperta come quella del culto di Mormon. E se nella mia testa la loro musica mi sembrava la corrispondenza ideale a quei racconti così silenziosi e vuoti di Breece D’J Pancake non era un caso. I Low cantavano canzoni per riempire l’assurdo vuoto di esistere e nel farlo riempivano anche il mio con un’intensità incommensurabile: la forza di qualcosa che volava lontano anni luce dalla melanconia ma che della melanconia aveva il seme originario, spaccato e fruttato dalla vibrazione spirituale delle loro parole e delle loro note.
Ma i Low non riempivano solo il mio vuoto, hanno dato «qualcosa per la vita», come direbbe Emidio Clementi, anche a molte altre persone. Non si spiegherebbero altrimenti le reazioni di tante persone su Facebook alla morte di Mimi Parker. Da domenica pomeriggio un profluvio di post fatti di canzoni, ricordi, doglianze che per una volta ha trasformato Facebook in un qualcosa di completamente buono. Una comunità di donne e uomini che si è stretta nell’incredulità e nel dolore per la morte di una persona magari mai conosciuta eppure così vicina alla vita di chi ha ascoltato la sua voce e la sua batteria. Un po’ come quando morirono Lou Reed, David Bowie o Leonard Cohen. Che però erano personaggi famosi, conosciuti anche da chi la musica non la frequenta in modo così assiduo. Invece Mimi Parker era quasi una “sconosciuta”: i Low non hanno mai fatto hit, non sono mai andati su giornali e riviste se non per il valore prezioso della loro musica.
Io i Low li ho rivisti dal vivo una sola volta, il 28 novembre del 2011 ai Magazzini Generali di Milano per il tour di «C’mon», un altro disco splendido del trio americano (ma ne hanno mai fatti di brutti?). Fu un concerto eccezionale, anzi fu u na specie di trasporto in una dimensione libera e felice da cui alla fine, quando uscii dal locale, non avevo parole perché non mi servivano parole, ma avevo bisogno solo di godere di quello che era stato. Poi, per vari motivi che non sto qui a spiegare, non li ho più visti, nonostante in Italia ci siano venuti diverse altre volte. Questo oggi lo sento un po’ come un rimpianto. E allora finito di scrivere quest’articolo e finita questa giornata di lavoro, inserirò il cd di «The Great Destroyer» nello stereo, mi siederò sul divano, indosserò le mie cuffie e chiuderò gli occhi, aspettando che la voce di Mimi affianchi quella di Alan nelle prime parole di «Silver rider» («At times I see you / You silver rider / Sometimes your voice is not enough // Your face in windows // Outside forever Nobody dreamed you’d save the world // Nobody dreamed you’d save the world») per poi salire insieme a loro in quel «la-la-la-la-la» corale, che per un momento spalanca la luce su ogni cosa.