Da cantautore Simone Cristicchi ha esteso la sua arte alla narrazione, al teatro, al cinema. È più facile parlarci che raccontarlo. Viene a Bergamo il 15 settembre per Molte fedi, porta in scena nella chiesa dell’Ospedale Giovanni XXIII “Abbi cura di me”, spettacolo tra parole e musica dedicato alla memoria di fra Giorgio Bonati. Sul palco c’è anche Massimo Orlandi, in presenza soprattutto medici e personale ospedaliero, ma l’evento viene ripreso e diffuso in streaming sui canali social di Molte fedi, L’Eco di Bergamo e di Eppen.
Canzoni e riflessioni sono alla base di questo intenso lavoro d’impianto teatrale pensato per dar vita ad una serata dove si riflette tutti insieme sulla necessità di andare avanti nonostante le incertezze, le fragilità che abbiamo. “Con padre Giorgio eravamo molto amici”, spiega Cristicchi. “Lui aveva molto apprezzato il percorso di ricerca che mi ha portato a scrivere alcuni brani che gli stavano particolarmente a cuore: ‘Lo chiederemo agli alberi’, ‘Abbi cura di me’. Erano diventate il tema di alcune sue veglie. Lui non mancava mai ai miei spettacoli quando venivo al Nord. Ci trovavamo spesso anche alla comunità di Romena dove ci siamo incontrati la prima volta. La sua morte è stata una grandissima perdita. Mi manca la sua presenza, ma finché ci saranno momenti per ricordarlo io credo che sarà felice anche là dove è”.
UB: Lo spettacolo “Abbi cura di me” è anche un libro autobiografico, una canzone importante del suo repertorio. Come cambiano canzoni e spettacolo alla luce di questo momento, con poca gente davanti, magari tanta che ascolta da lontano? Cambia la disposizione dell’artista in scena?
SC: Sicuramente c’è un’energia, un’elettricità maggiore rispetto a prima. Un carico emotivo più forte, da parte del pubblico, ma anche di chi sta sul palco. I concerti che ho fatto quest’estate sono stati da questo punto di vista molto emozionanti. C’era la voglia di ritrovarci insieme, grazie ad un repertorio che punta spavaldamente all’interiorità, alla spiritualità. Punta l’occhio di bue su quelle che sono le fragilità dell’essere umano. In questo senso i concerti sono stati più amplificati sul piano emotivo. Nell’aria si sente la voglia di cambiamento, di trasformazione. Il desiderio di rimettere al centro quelle che sono le priorità della nostra vita. Ovviamente con tutta l’umiltà del mondo. Io racconto la mia storia e lo faccio attraverso il libro che ho scritto con Massimo Orlandi. È anche una storia di dolore, di delusioni, di grandi cadute. E’ una storia di vita straordinaria come quella di tutti. Io credo che ogni vita meriti di essere raccontata, ognuno di noi ha delle storie nel cassetto e delle esperienze di vita che possono essere utili agli altri. Credo che ognuno meriterebbe una biografia. Ogni vita è straordinaria a sé.
UB: Lei ha iniziato scrivendo cose un po’ “strampalate” poi pian piano le canzoni sono diventate narrative, cinematografiche, dei film musicali in miniatura. Poi ha aperto la strada al teatro, ai docufilm. Il campo si è molto esteso. Tutto parte da quei piccoli cortometraggi in musica?
SC: Sì, sono la partenza. Nasco come fumettista e quel bagaglio mi è servito quando ho scoperto la forma canzone, si è riversato nel pentagramma e nei versi delle prime canzoni. Penso a “Studentessa universitaria” ma anche a “Ti regalerò una rosa” che ha vinto il Festival di Sanremo. L’attitudine al racconto di una storia viene dal fumetto: poche pagine bianche da riempire. Nella canzone lo spazio temporale è ristretto a quattro minuti. In qualche modo mi vedo vicino a quelli che distillano i liquori. In una canzone devi distillare le parole giuste, devi inquadrare i personaggi, descriverli in poco tempo. Con il teatro la questione temporale si risolve altrimenti perché hai un’ora e mezzo due per raccontare una storia, quindi la puoi sviscerare meglio.
UB: “Abbi cura di me” fa venire alla mente un’altra canzone imperdibile del repertorio italiano: “La cura” di Franco Battiato. Sembra quasi una versione inversa di quel brano.
SC: È esattamente l’inverso. “La cura” è una dichiarazione d’amore: io ti proteggerò, avrò cura di te. “Abbi cura di me” è una richiesta d’aiuto, una sorta di preghiera, un’ammissione di fragilità. In questo senso è qualcosa che appartiene a tutti. La fragilità, il senso di separazione ci uniscono, ci appartengono da quando usciamo dalla pancia di nostra madre. Ci si stacca da una completezza e c’è chi quel senso lo ricerca per tutta la vita. È forse il trauma più grande che ha l’essere umano. C’è chi ritrova questa completezza nell’amore filiale, nell’amore coniugale, così come la suora di clausura trova quel che cerca nella preghiera e nell’unione con Dio. Questa ricerca di senso è un punto che ci rende fratelli.
UB: Lo spettacolo andrà in streaming, ma sarà in presenza di medici e paramedici che hanno affrontato il dramma della pandemia. Pensa che da questa esperienza usciremo migliori, in qualche modo rinforzati?
SC: Durante la quarantena ho scritto una poesia che s’intitola “Il primo giorno del nuovo mondo” dove ho immaginato il ritorno alla cosiddetta normalità che poi è rappresentata anche dal virus. Credo però che l’umanità avrebbe bisogno di uno schiaffo ulteriore, questa pandemia è stata un pizzicotto di madre terra. Tendo a vedere le cose in chiave positiva e mi piace pensare che una buona parte delle persone abbia rimesso in gioco e ricatalogato la propria vita. Ci sono persone che hanno vissuto anche la quarantena come un dramma. A proposito ho scritto un’altra poesia: “Vademecum per un recluso”. Dico: puoi anche essere libero, se torni ad essere curioso, se torni a giocare con la vita. Penso che per un buon cinquanta per cento le persone abbiano sfruttato questo momento per ritrovarsi con se stessi e rivedere le proprie scelte di vita. Tutto sta a prendere in mano il coraggio, anche di reinventarsi.