Sono convinto che Ettore Giuradei sia uno dei migliori songwriters spuntati nel nostro Paese negli ultimi vent’anni. Il ritorno con un nuovo lavoro dopo sei anni di silenzio – interrotto solo dall’esperienza Dunk con il fratello Marco, Luca Ferrari dei Verdena e Carmelo Pipitone dei (furono?) Marta sui Tubi – è quindi una bella notizia. Anche perché “Lucertola” è un gran bel disco: recupera quattro brani del passato, ne aggiunge cinque nuovi (fra cui un paio di intensità rara) e immerge il tutto in un fluido psych-folk tanto inedito per lui quanto efficace per la portata espressiva delle tracce. Qualche domanda prima della data a Edoné mercoledì 27 novembre.
LB: A parte il disco e il tour dei Dunk, è dal 2013 che non pubblichi niente a tuo nome. Che cosa hai fatto in questi anni?
EG: Ho fatto un po’ di “casini”, ho cambiato casa un paio di volte, ho gestito un B&B, ho continuato a leggere e suonare, in Taverna, a casa mia. E ho cercato, piano piano, di riordinarmi le idee. E poi ci son stati i Dunk.
LB: In questo periodo sei stato anche il protagonista del documentario “La nostalgia della condizione sconosciuta” di Andrea Grasselli. Che esperienza è stata?
EG: Ecco, collegandoci alla domanda precedente, se vuoi sapere cosa ho fatto in questi anni, guardati il documentario. Il film è in concorso al Torino Film Festival nella sezione documentari italiani. Per me è stato un esperimento. Andrea m’ha proposto di seguirmi durante i live, io gli ho detto di sì e ho smesso di suonare. Però c’era qualcosa che mi intrigava e un po’ avevo paura a smettere del tutto, quindi gli ho proposto di seguirmi, nella mia vita, normale. Non so dirti se è stato bello o brutto. È stato tosto, a un certo punto ho dovuto dire basta.
LB: Nel disco riprendi alcuni brani del tuo passato. Come mai? E perché proprio questi?
EG: Quando mi hanno proposto di pubblicare il disco nuovo avevo solamente quattro inediti, volevo incidere subito. In quel periodo ho fatto un paio di concerti da solo, e avevo sulla “zampa” un po’ di pezzi “vecchi”. Questo album vorrebbe fare il punto sulla mia carriera e sottolineare che sono un autore/cantautore. Allora ho pensato che poteva essere una buona idea pescare cinque brani, uno per ogni album uscito in precedenza, ed inserirli nel disco. Ho scelto i brani a cui son sempre stato legato per il “carattere” del testo. Son le mie canzoni che mi piacciono di più!
LB: Mi hanno abbastanza sorpreso le scelte sonore, fra lo psichedelico e l’onirico, mentre nei dischi precedenti c’era una forte presenza della canzone italiana, dal miglior pop sino a Vasco Rossi. Qui citi come riferimento il Bowie Berlinese e il Badalamenti di Twin Peaks. Come è avvenuta questa transizione sonora?
EG: I riferimenti che hai citato sono tutti farina del sacco di Blodio (Paolo Fappani), che di fatto è stato il produttore e co/produttore artistico del disco. Quindi ti posso dire che questa transizione è venuta un po’ per caso. Io volevo un disco chitarra e voce, dilatato, poetico. L’essenza c’era, già da solo, ma me la sentivo addosso davanti a poche persone, in un concerto da camera, non su disco. Su disco non mi bastava e allora ho voluto coinvolgere due musicisti. Giacomo Papetti musicalmente lo conosco da un po’. Fa parte di quello che chiamo nuovo jazz. Volevo inserire un basso e ho pensato a lui. Fidel Fogaroli me l’hanno consigliato Blodio e Ronnie. Si è deciso di liberare, “dietro” ai brani, uno spettro sonoro, che potesse lontanamente prendere spunto da De André, Neil Young, Sigur Rós… questi erano i miei riferimenti ma Blodio, sì, l’ha spostato anche in altri mondi, e sono contento.
LB: “Strega” ad esempio perde quell’impatto pop nella versione de “La repubblica del sole” e viene immersa in una coltre di suoni onirici psych-folk.
EG: Mi divertono molto, mi lasciano ancora quel briciolo di sorpresa, di sogno. Qualcosa di etereo, un sollievo. Cantarla, suonarla così arpeggiata, mi sa di ninnananna, malata.
LB: Idem “Prendimi in un mazzo di fiorellini”: si appoggia su un giro di basso e su dei rumorismi molto evocativi. Tutti oggi cercano la soluzione pop, tu vai proprio da un’altra parte, perché?
EG: Semplicemente perché era quello che mi faceva “godere” in quel momento. La stavo suonando così con la chitarra classica, cos’è? Un valzerino!? Tun za za con la chitarra classica mi sembrava nella sua semplicità strafigo. Poi gli altri gli han fatto quel contorno empatico, che poteva nascere solo così, come sono nati gli altri pezzi: in due giorni, buona la terza/quarta traccia!
LB: “Mi piace questa casa senza specchi / mi piace non vedermi”: è un verso molto forte di “Lucertola”.
EG: Non mi piace spiegare troppo le canzoni, m’ha sempre fatto un po’ cagare sentirle spiegate anche dagli altri. Comunque è una riflessione, su come saremmo senza vedere noi stessi, la nostra immagine. E mentre riflettevo, ogni tanto entrava una lucertola, e io che perdevo tempo per cercare di prenderla… Lucertolaaaaa!
LB: “7 astri” ha un fortissimo afflato cosmico, la ascolti e immagini Ettore che guarda il cielo. E dici “estendo la violenza al sesso, nell’amare l’universo”.
EG: Ma sì! In questo momento in cui, non so te, ma io, non ci capisco un cazzo, avevo voglia di concentrarmi sul sollievo, non sulla pazzia. Su quello che c’è in attesa della fine. E secondo me fare l’amore, anche in modo “bestiale”, è una cosa che ci solleva e che ci fa sentire a contatto con qualcosa di straordinario.
LB: Come ti trovi nel panorama musicale attuale, fra la trap (dove ci sono cose molto belle, ma pure molto brutte) e il cosiddetto indie-pop. C’è qualcosa che stimi in particolare?
EG: Diciamo che l’ultimo ascolto che m’ha colpito è stato il disco più recente di Vinicio Capossela. Anche lui m’ha sollevato. Ma quest’anno è l’anno dei concerti belli, addirittura tre ne ho visti: Animatronic, Bon Iver e Micah P. Hinson.
LB: Quando ti ho chiamato l’altro giorno mi dicevi che stavi andando al concerto di Micah P. Hinson. Cosa ti piace quando metti il naso fuori dall’Italia?
EG: È un po’ che non emigro, forse un po’ troppo. Te l’ho dirò appena ritorno dal prossimo viaggio!