Qualche settimana fa i Verdena hanno pubblicato la versione celebrativa dell’omonimo album d’esordio uscito vent’anni fa. Sarebbe lungo stare qui a spiegare come mai quel disco sia stato fondamentale per il rock italiano a venire – molti prima di me l’hanno fatto e non serve aggiungere altro. Diverso è focalizzarsi su cosa è stato per la musica bergamasca un lavoro che di fatto catapultava dalla semisconosciuta Abbazia di Albino alla ribalta nazionale un trio di ragazzi come tanti altri, con in più una certa propensione per il rock anni Novanta e per un malinconico (nichilistico?) spleen tardo adolescenziale, che allora come oggi colse lo stato d’animo di tanti ascoltatori.
“Verdena” è stato un punto di svolta per la scena bergamasca, una breccia aperta sui confini di una provincia da sempre ritenuta patria del lavoro e motorino d’Italia. Uno spunto per molte band che negli anni a venire si sono fatte conoscere oltre i suddetti confini, facendo di Bergamo una sorta di Seattle in miniatura all’interno di un Paese mai stato veramente rock.
Alberto, Luca e Roberta in altre parole hanno dato il là ad un movimento multiforme e molto vitale che ha permesso ai media nazionali di puntare il faro sulla piccola e attiva Bergamo. Un ecosistema dove band dai suoni molteplici, locali a diverso grado di coraggio nella programmazione e una fitta rete di festival si sono liberati in parte di quella patina di provincialismo che ogni provincia si porta addosso. Per presentarsi come una realtà autorevole e creativa, dove lo spirito imprenditoriale tipico dei nostri territori si è trasformato – soprattutto per quanto riguarda locali e festival – in una serie di avventure imprenditoriali non meno laboriose, che hanno portato a casa parecchi risultati negli anni.
Insomma, Bergamo è un luogo che, musicalmente parlando, in molti ci invidiano. Basta farsi un giro in altre province dello Stivale per capire quale sia la differenza quantitativa e qualitativa fra questi luoghi e una provincia dalle numerose proposte, spesso eccentriche se non proprio originali. Un posto dove si suona tanto e in cui le situazioni live – che significano ascolto, costruzione di una rete e quindi scambio di esperienze e suggestioni – abbondano fino a farsi una (pacifica) concorrenza.
Per semplici questioni anagrafiche e di passione ho avuto la fortuna di vivere tutto questo in prima persona, sia come “musicista” (virgolette d’obbligo) con i Bancale che come organizzatore di eventi con il collettivo Neverlab.
Quella dai primi anni Zero sino ad oggi è stata una lunga stagione esaltante, fatta di band di valore e di luoghi speciali dove suonare. Formazioni di culto come gli Hogwash e i Karnea. Compagini dal suono decisamente personale come gli Spread, i Sakee Sed, i Verbal, che anche grazie ai Verdena hanno raggiunto quella visibilità oltreconfine capace di trasformare “una band di paese” in una realtà nazionale (seppur nel sottobosco del cosiddetto indie italiano). Cantautori punk come Caso o dolenti folk-singer di razza quale è Trevisan, songwriter letterari come Andrea Arnoldi e il peso del corpo, tutti musicisti non meno di culto di quelli sopra citati. E, ultimi arrivati ma non per importanza, nomi più recenti come Vanarin, Sonars e OTU, sigle dal suono quantomai internazionale. Senza dimenticare le rotondità funk-pop dei Pinguini Tattici Nucleari, che il prossimo febbraio tenteranno il sold-out al Mediolanum Forum di Assago e chissà cos’altro.
Tutto questo non sarebbe successo se nel 1999 i Verdena non avessero dimostrato che anche dalla più remota provincia bergamasca è possibile andare lontano. Non è semplice, certo, servono tanto impegno, le idee sonore giuste e una buona dose di follia, ma si può fare e loro l’hanno fatto. Diventando, più o meno consapevolmente, un esempio per tanti musicisti orobici. Un precedente che ha generato una discendenza di gruppi tutti da scoprire e un movimento di luoghi dove suonare d’inverno e d’estate. Rari per una piccola provincia come Bergamo e ancora di più per un territorio troppo spesso considerato “satellite” di Milano.
C’è una specificità tutta bergamasca fatta di intraprendenza, stravaganza, libertà sonora e bisogno di uscire dalle solite logiche deprimenti della provincia cronica in band strane come Le Capre a sonagli. In festival mitici come il compianto Rockisland (di cui la serata del 2011 con i Verdena gratis è forse la sintesi di tutto questo). In realtà mai dome come Filagosto (oggi, giustamente, il più quotato fra i festival made in BG). In megaeventi di nicchia come l’esaltante Punk Rock Raduno, che porta in città gente da tutta Europa. E in un Rock sul Serio sempre più green e inclusivo, strada che in futuro verrà seguita, noi speriamo, anche dagli altri eventi estivi.
Ma questo spirito tipicamente bergamasco si trova anche nelle aspirazioni importanti di locali come Edoné, in contesti splendidamente veraci tipo Joe Koala e nel poliedrico Ink Club, che oltre ad una programmazione a tratti temeraria offre corsi a carattere musicale e una radio – per non dire della tre giorni di Clamore, sintesi dello spirito Ink e di quello Edoné nonché evento dove trovare ogni anno band interessanti e destinate a crescere.
Sia chiaro, non tutto funziona al meglio. C’è ancora una buona dose di provincialismo nell’aria e la profonda mutazione che sta subendo la musica da ogni parte la si guardi è un punto di domanda non da poco. Tuttavia se c’è una cosa che sta emergendo negli ultimi anni è una certa agilità delle formazioni bergamasche più giovani rispetto alla trasformazione digitale, che si accompagna a un rinnovamento profondo dei suoni. Anche questo oggi fa della specificità bergamasca un qualcosa di vivo, pulsante e pronto a gettarsi nel domani: per reagire ai cambiamenti in corso, giocarsi le proprie carte (noi scommettiamo su cinque nomi: Calabi, Pau Amma, Low Polygon, Iside e Pulsar Ensemble) e continuare a surfare sull’onda lunga di quell’opera prima targata 1999, che ha reso Bergamo un posto speciale.
Postilla: in questo pezzo abbiamo citato alcuni nomi di band, locali e festival e non ne abbiamo menzionati altri, mescolando fatti, esperienze personali di chi scrive e ricordi (magari non del tutto a fuoco). Che dire ad esempio di due esperienze straordinarie come il Motion di Madone e lo Zero Music Club di Azzano? E di tutta la fervida scena hip-hop (di cui parleremo presto), di quella sperimentale e delle tante band e festival che solo per ragioni di spazio non abbiamo citato? Ci sono poi progetti che hanno spianato la strada, come le Officine Schwartz o La Famiglia Rossi. Ma tutto non ci poteva stare, dunque nessuno si offenda: l’articolo non è su questo o quel nome, ma su un micro (?) mondo magmatico che non sembra volersi spegnere e anzi ravviva la fiamma di lustro in lustro.