“Ci sono tante persone che hanno scritto ‘la profezia di Pedrini’. Io non me l’aspettavo sinceramente venticinque anni fa di aver azzeccato una previsione in quel disco, anche se in effetti parlavo di una Terra tanto inquinata da obbligarci ad andare su un altro pianeta che chiamavamo ‘Europa 3’. Sono felice quando mi chiedono di Speedball ma anche un po’ imbarazzato perché non mi sento un veggente”. Così Omar Pedrini su “2020 Speedball”, lavoro che i Timoria pubblicarono nel 1995 dopo il successo di “Viaggio senza vento”: forse l’album più duro della band bresciana, certamente una dichiarazione di libertà e indipendenza che oggi non ci aspetteremmo da una formazione sulla cresta dell’onda.
A venticinque anni da allora, “2020 Speedball” verrà ripubblicato venerdì 3 luglio in doppio cd e doppio vinile con l’aggiunta di undici brani live dal concerto tenuto al Rolling Stone di Milano il 18 dicembre 1995, ultima data del “Senza Far Rumore Tour”. Il giorno dopo Pedrini insieme ad Alessio Boni inaugurerà “Lazzaretto on stage”, la sezione al Lazzaretto di “Torniamo in scena. Estate duemila[e]venti”, ovvero il calendario di eventi estivi del Comune di Bergamo. Un modo per far ripartire la cultura e gli spettacoli del nostro territorio coinvolgendo varie realtà locali e non, fra teatro, musica e danza. Lo spettacolo (, ore 21.30, già sold-out) si intitola “66/67”, come gli anni di nascita dei due (Boni del ’66, Pedrini del ’67), ed è un viaggio fra le influenze culturali che hanno formando i due artisti, partendo ovviamente dalla musica.
“Ho conosciuto Alessio ad un mio concerto a Rimini sette-otto anni fa, me lo presentò Alessandro Haber, nostro amico comune. Mi disse che da ragazzo era un fan dei Timoria, io gli risposi che lo avevo notato già allora, un giovane attore bergamasco che stava facendosi largo. E quindi eccoci qui: Brescia e Bergamo insieme per regalare un po’ di gioia e di speranza alle persone”.
In verità Pedrini da giovane voleva fare l’attore e Boni, neanche a dirlo, la rockstar. “Lui sostiene che quando eravamo piccoli le nostre mamme hanno scambiato i passeggini. Magari un giorno in cui entrambe erano sul lago d’Iseo a mangiarsi un gelato. Attraverso questo espediente raccontiamo e cantiamo il mondo e le canzoni che ci hanno fatto diventare quello che siamo, dagli anni Sessanta ai Duemila”. Di ogni brano “racconteremo il contesto e l’atmosfera del periodo” per far comprendere meglio al pubblico una serie di episodi artistici che contribuirono a fare la Storia, segnando le vite di tanti: Dylan, Marley, Lou Reed, sino a una chiusura con “Io non mi sento italiano” di Giorgio Gaber, “non potevamo non omaggiarlo visto che sarà una serata di teatro-canzone. Ci sarà poi una sorpresa finale, nella quale coroneremo ognuno il sogno dell’altro”.
C’è un’intesa cresciuta data dopo data alla base di questo spettacolo, una semina che germoglierà sul palco del Lazzaretto: “in tournée ci siamo dati dei nomi: Alessio è il Principe, io il Gringo. Andiamo d’accordo sia sopra che sotto il palco. C’è stato un solo litigio, quando abbiamo dovuto scegliere le canzoni da proporre. Entrambi ne avevamo una cinquantina, poi asciuga asciuga si è arrivati a undici, cinque scelte da me e cinque da lui, più Gaber”. Scegliere le canzoni della vita è sempre un’impresa ardua, “è come avere una pistola puntata alla tempia, ma alla fine ce l’abbiamo fatta”.
I testi di “66/67” sono di Alessio Boni e Nina Verdelli, sul palco insieme alla coppia ci sarà una band formata da Stefano Malchiodi (batteria), Larry Mancini (basso e voce) e Carlo Poddighe (voce, chitarra e tastiere). “Sarà uno spettacolo che speriamo piaccia al pubblico. Stiamo vivendo le conseguenze economiche e sociali del lockdown, l’arte può fare qualcosa per migliorare la situazione. Personalmente già durante le settimane di chiusura totale ho sempre cercato di regalare dei piccoli scampoli di bellezza attraverso i social, suonando una canzone oppure dialogando con qualcuno. Sono attività che mi hanno occupato intere giornate, arrivavano richieste d’aiuto da ogni dove e cercavo di dare una mano a tutti con la mia musica e i miei pensieri. Ora che possiamo tornare sul palco sarà tutto all’insegna di un’intensità particolare”.
A proposito di lockdown, Omar ha vissuto le settimane più difficili della pandemia a Milano da solo: “è stata una situazione estrema, vivendo in solitudine in una casa di cinquantotto metri quadri, senza un giardino dove poter camminare. Mia moglie e mia figlia erano via, a Padova, per stare vicino alla mia amata suocera, molto malata”. Paradossalmente però è stato il passato del cantautore bresciano a venire in soccorso: “avendo subito tre operazioni al cuore sono abituato a stare da solo in ospedale e questo è stato un aiuto. Sono strutturato per affrontare i momenti difficili, il mio cuore da cardiopatico mi accompagna ormai da quindici anni”. I problemi al cuore, su consiglio del cardiologo, hanno obbligato Omar a stare in casa “già prima del peggioramento della situazione, che è stato quasi improvviso e ci ha travolto. I medici mi consigliavano caldamente di stare in casa e così ho fatto”.
Ad un certo punto della sua “detenzione” Pedrini ha pubblicato sui social una versione in acustico di “Sole spento” che ha superato il milione di visualizzazioni, “quindi vuol dire che un bresciano e bergamasco su due l’hanno vista e spesso ricondivisa, dato che fra Bergamo e Brescia siamo circa due milioni di persone”. Un gesto semplice che conferma quel rapporto speciale fra lui e il pubblico: “il fatto di vedere che i nostri interventi facevano così bene alle persone è diventato un impegno. Capisci allora che essere sul palco di Bergamo il 4 di luglio per me è un’emozione incredibile. Perché riportiamo l’arte e la vita dove c’è stato il buio, il silenzio e la morte”.
Infine due battute sulla situazione della musica nel nostro Paese: “ho l’impressione che siamo l’ultimo dei problemi, e difatti qualcosa si sta muovendo solo adesso. Intanto però il settore muore. Ci hanno dato il permesso di fare gli spettacoli con un terzo della capienza ed è saggio, però non hanno concesso agli organizzatori di vendere panini e birre. In questo modo quasi nessuno ha la possibilità di organizzare qualcosa. Rimane però una domanda di fondo: perché io posso andare in un bar a Milano a mangiare e bere e non posso andare a un concerto?” Una risposta vera e propria ad oggi non c’è e Omar ricorda che “la musica, quando si tratta di fare solidarietà, risponde sempre e lo fa gratuitamente. Ora che ad avere bisogno siamo noi, non solo i musicisti ma tutti i lavoratori che stanno intorno a un concerto, dagli uffici stampa ai tecnici, passando per chi monta i palchi e il management, c’è un disinteresse che solo adesso forse sta cambiando. Ma tante situazioni purtroppo non si riprenderanno più”.
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