Cosa distingue un musicista che svanirà insieme al suo tempo da uno che invece riuscirà a travalicarlo? Tante cose, fra queste la capacità di sintetizzare il mood di un momento storico, di svelarlo e di opporsi ad esso. Ovvero ciò che fa Niccolò Fabi, il 29 gennaio al Creberg Teatro, per una data del suo tour cominciato qualche mese fa.
L’esordio nel 1997 con “Il giardiniere”, disco prodotto da Riccardo Sinigallia come “La favola di Adamo ed Eva” di Max Gazzè l’anno dopo (che contiene il duetto “Vento d’estate”, Niccolò e Max insieme). L’ultimo lavoro “Tradizione e tradimento”, nel quale il cantautore romano affina definitivamente una poetica basata sulla gentilezza e la sobrietà. Un modo d’intendere la canzone dove non mancano le prese di posizione ferme e un ragionamento sentimentale di fondo, che oppone allo smarrimento e al rancore del presente un songwriting a mezza voce, di straordinaria intensità emotiva, giocato tutto sull’inquietudine riflessiva di un buon senso necessario.
Fra la superficie solamente increspata dell’itpop e la poetica di strada della trap, Fabi ribadisce il suo umanesimo laico in grado di parlare ai quarantenni come a chi nasceva nei primi Novanta. Atto incisivamente politico laddove quasi tutto è schiamazzo, cinismo e gara a chi la racconta più grossa, fuori e dentro la musica. Il trittico “Ecco”, “Una somma di piccole cose” e “Tradizione e Tradimento” fissa l’orizzonte sonoro del nostro. Musicalmente non ancora del tutto al fuoco il primo. Saldamente centrato sull’asse folk Bonnie Prince Billy / Sufjan Steven il secondo (con la copertina che omaggia, o ricalca?, “Pond Scum” di Will Oldham). Appoggiato su leggerezze elettroniche l’ultimo, dopo una pausa di tre anni che è servita per distanziarsi dalla musica per poi riprenderne le redini.
Fabi si era giocato delle ottime carte anche prima, con brani capaci di accendere piccole grandi verità umane come “Costruire” (“Chiudi gli occhi / Immagina una gioia / Molto probabilmente / Penseresti a una partenza”) o “Solo un uomo” (“È solo un uomo quello che mi commuove / Che vorrei uccidere e salvare amare e abbandonare / È solo un uomo ma lo voglio raccontare / Perché la gioia come il dolore si deve conservare / Si deve trasformare”). Ma è in questa terzina di opere che riesce a calibrare al meglio l’afflato sonoro con la scrittura e un orizzonte valoriale delineato – sì, perché per il nostro parlare di valori ha un senso.
“Verranno a cercarci a disturbarci il sonno / ad oscurare il nostro giorno / come una fitta improvvisa sotto il costato / le cose che abbiamo ignorato / che non abbiamo detto” canta in “Le cose che non abbiamo detto” (da “Ecco”), come a volersi sedere accanto all’ascoltatore non per compiacerlo, bensì per scuotere le coscienze, quelle degli altri e la sua, dopo il dramma della morte di una figlia. Fabi non è furbetto come l’ultimo Gazzé e nemmeno in deficit di ispirazione come Silvestri: del trio che nel 2014 ha pubblicato l’altalenante “Il padrone della festa” è colui che ha saputo districarsi al meglio in quella confusione post-ideologica che ha reso impossibile rifugiarsi sotto le strutture culturali di un Guccini o di un De Gregori nei Settanta.
L’unica risposta quindi è rimasta l’uomo, inscritto dal nostro in una visione che risponde all’individualismo e all’indifferenza con ingenti dosi di solidarietà e accorata preoccupazione. Non è retorica quella di “Una somma di piccole cose”, semmai un manifesto programmatico che magari si concede qualche faciloneria per eccesso di pathos (“Ha perso la città”) eppure fissa una manciata di intuizioni essenziali come gli arrangiamenti di ogni brano. Vedi ad esempio “Vince chi molla: “Distendo le vene / E apro piano le mani / Cerco di non trattenere più nulla / Lascio tutto fluire / L’aria dal naso arriva ai polmoni / Le palpitazioni tornano battiti / La testa torna al suo peso normale / La salvezza non si controlla / Vince chi molla”. È un gesto quasi rivoluzionario ribadire che mollare è buona cosa, quando dominano l’agonismo da perenne competizione di un contesto sociale divenuto giungla.
“Scotta” titola giustamente la traccia d’apertura di “Tradizione e tradimento”. Canzone dalle parole elementari ma centratissime se l’intento è quello di fissare una sorta di memorandum che risponda alla domanda, altrettanto semplice, sul ruolo (oggi?) dell’arte: “Scotta / Una penna quando scrive l’imprevisto / Quando scopre quello che è nascosto / Quando non si gira dall’altra parte / L’arte non è una posa / Ma resistenza alla mano che ti affoga”.
Questo è il romano, classe 1968, undici dischi all’attivo e una sequenza di date sold-out in un tour che mercoledì passa in città. “Io sono l’Altro”, primo singolo da “Tradizione e tradimento”, è forse la sintesi più esatta, evocativa ed efficace del Fabi-pensiero. Un brano ridotto all’osso nella scrittura e nell’arrangiamento, il video frontale che traduce in immagine un songwriting a viso aperto: se la filigrana è di misurato disappunto, l’esito è il fiorire di un sentimento civile e umanista. Che riafferma la radicale difficoltà di stare di fronte all’Altro ma pure l’inevitabilità di provarci.
Ecco perché Fabi, azzardiamo, sarà uno dei pochi nomi che ci ricorderemo ancora fra qualche anno. Si aggiunga a quanto detto un repertorio importante e un’eccezionale densità emotiva sul palco. Difficile sapere con quanta consapevolezza il nostro abbia scritto negli ultimi anni quello che ha scritto. Tuttavia è dei grandi artisti la capacità di leggere il presente. Di portarlo in un altrove temporale quale testimone di un’epoca passata. E intanto di esseri necessari come non mai, qui ed ora.