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Negli Animatronic Luca Ferrari picchia le pelli come un fabbro (ma neanche gli altri due scherzano)

Intervista. Domani, 11 gennaio, all’Ink Club di Bergamo l’ultima data del progetto rock – duro, libero, felice – del batterista dei Verdena con Luca “Worm” Terzi alla chitarra e Nico Atzori al basso

Lettura 4 min.

Di questi tempi, con le classifiche musicali infestate da trap, autotune, drum machine, ghostwriter e personaggini confezionati con lo stampino, il rock non se la passa troppo bene. Certo, non mancano i grandi dischi, né gli irriducibili appassionati. Ma è evidente che le mode più attuali battano da un’altra parte, quasi antitetica rispetto all’eterno (?) trinomio chitarra-basso-batteria.
Andare in sala prove per suonare con gli amici, sudare e pestare senza pensare a null’altro, insomma fare musica per il semplice gusto di farlo, a prescindere dalle visualizzazioni e dagli streaming, è una cosa che purtroppo si sta un po’ perdendo. Il rock è dunque morto davvero?

In realtà sembrerebbe proprio di no, almeno prendendo tra le mani “REC”. Si tratta del primo parto di un inedito progetto che più rock – nel senso puro e primigenio del termine – non si potrebbe. Tra le cui fila riconosciamo dei volti decisamente familiari: anzitutto Luca Ferrari, batterista dei Verdena, e poi Luca “Worm” Terzi alla chitarra e il percussionista Nico Atzori, per l’occasione prestato al basso.
Si sono chiamati Animatronic, per un’avventura cominciata in modo un po’ casuale e quasi goliardico e arrivata ora ad un primo album ufficiale. Ce lo ha raccontato proprio Ferrari, che abbiamo raggiunto al telefono per una bella chiacchierata: “È nato tutto delle sperimentazioni insieme a Nico a casa mia: giocavamo con dei sintetizzatori, chiamavamo chiunque ad improvvisarci sopra, tra cui appunto Worm. Dopo un po’ abbiamo iniziato a tirarci fuori delle canzoni, e registravamo le jam su un 4 bit a cassetta. Poi a un certo punto abbiamo deciso di registrarci, più che altro per tenere una testimonianza di questa cosa. Diciamo che tutto nasce dalla voglia di suonare, e di esprimersi”.

La musica nata da queste jam session è molto diversa da quella dei Verdena, a parte alcune vaghe reminescenze in qualche passaggio. Qui si spazia da un chitarrismo virtuoso e un po’ “shred”, diciamo alla maniera di un Joe Satriani un po’ più curioso, a parentesi leggermente jazzate, fangosi passaggi stoner e intriganti tribalismi afro. C’è un po’ di metal e un po’ di funk, un pizzico di sludge e tanto blues, volteggi prog e svisate psych, insomma i nostri eroi non si sono limitati in nulla. Immaginate una pastura in cui Melvins, Naked City, Bud Spencer Blues Explosion, Primus e System of a Down sguazzano allegramente scambiandosi le idee.
È un rock rigorosamente (e orgogliosamente) strumentale, urgente e sincero nel suo mutismo verbale. Ferrari picchia le pelli come un fabbro posseduto dal demonio, raggiunge velocità imprendibili e – libero dai recinti della forma-canzone – può cavalcare libero quanto vuole.

Eppure gli ascolti di Luca durante la composizione dei pezzi bazzicavano da tutt’altra parte: “in quel periodo ascoltavo tanta roba che arrivava dalla Scandinavia, gruppi sconosciuti per lo più, tutti che mischiano black metal, stoner, hardcore eccetera e mettono insieme un po’ tutto. Non so perché, in realtà tutti e tre abbiamo dei gusti non proprio uguali, anche se c’è qualcosa su cui ci troviamo. È come se quando ci incontriamo ognuno abbia qualcosa di diverso da esprimere, che poi riusciamo a coniugare insieme. Per quanto mi riguarda, tendevo ad essere ispirato dagli altri gruppi quando ero giovane. Adesso un po’ meno. Vado un po’ a sentimento: magari un giorno mi sento più jazz e l’altro più metal, ma sempre tutto molto alla giornata, non c’è una vera e propria fonte di ispirazione”.

Lo stesso nome, che cita la tecnologia robotica che dà autonomia di movimento ai pupazzi meccanici (“l’ho visto in un documentario su Disneyland”), richiama un modo di suonare live che può ricordare quello di “robottoni particolarmente su di giri”.
Anche i visuals sono una parte fondamentale dell’album, con la cover curata dallo stesso Ferrari ad impreziosire un’edizione fisica sorprendente – “quando poi apri trovi una navicella spaziale, che è il nostro logo” – che è possibile acquistare in sede live. Purtroppo niente vinili: “è stato probabilmente uno sbaglio, perché ce li chiedono in tantissimi mentre oggi il cd non lo compra quasi più nessuno”.

Suonare, suonare, suonare quindi, e anche la registrazione del disco ha seguito questo crinale, procedendo totalmente in analogico e abbracciando le certezza di una vita: Alberto Ferrari (cantante dei Verdena e fratello di Luca) al mixing, e una location a sua volta molto familiare. “Abbiamo registrato tutto qui all’Henhouse Studio (l’ex pollaio di Albino riadattato a sala di registrazione, dove sono nati tutti i dischi dei Verdena da “Il Suicidio dei Samurai” in poi, ndr), perché è uno studio che conosco bene e so come rende i suoni Alberto. Infatti il tutto è stato velocissimo, le riprese del disco sono durate solo due giorni e mezzo: presa diretta, one, two three, four e via. Bisognava solo arrivare alla fine della take e farla giusta”.

Anche la resa live del tour sta seguendo questa spartana assenza di fronzoli: “avremo proiettati dietro dei visuals molto grezzi e infantili. Sono immagini che ci hanno accompagnato durante la gestazione del disco e volevamo riportarli anche live. E anche il nostro modo di suonare sarà senza tante storie: i pezzi saranno rifatti identici rispetto al disco, tranne qualcosina qua e là. E poi abbiamo aggiunto un pezzo in più, che abbiamo composto prima del tour”.

Insomma, l’approccio l’avete capito. Ma, come dicevamo, oggi il panorama mainstream è dominato da ben altri trend, fatti di musiche sintetiche e fascinazioni “altre”. Non è una diversità necessariamente sbagliata, ma appare chiaro come l’idea di trovarsi tra amici musicisti per suonare, cazzeggiare e provare cose nuove per il gusto di farlo sia abbastanza distante da quello che va per la maggiore oggi. Tutto questo dà fastidio a un musicista come Luca?Ma sinceramente me ne frego. Mentre scrivevamo come Animatronic mica ci pensavamo a ‘ste cose. Io ho sempre suonato così, in sala prove, sudando, e mi piace. Tutto il resto però non mi dà fastidio, penso semplicemente che siano delle onde, adesso va così. Comunque sì, ora come ora non va benissimo per il rock”.

E allora album, tour, e poi? Animatronic è un progetto che avrà un seguito o resterò “solo” la cartolina di una suonata di grande qualità? “Non ci dispiacerebbe continuare, con calma naturalmente, quando ci sarà tempo. Ci piacerebbe ogni tanto ritagliarci del tempo per questo progetto, sì. Sarebbe bello continuare a sperimentare insieme, perché ci siamo divertiti!”.
I progetti per il post-tour però sono esattamente quelli che qualsiasi appassionato di rock desidera: “Spero che riusciremo finalmente a chiudere l’album dei Verdena, finito il tour con gli Animatronic. Non sarebbe male uscire per settembre, ma non saprei dirti con precisione. Tanta roba è già pronta, ma mancano ancora alcuni pezzi che vanno registrati. Vedremo”.
Intanto sabato 11 gennaio potremo gustarci tutta la carica degli Animatronic all’Ink Club di Bergamo, ultima data di questo giro di concerti.

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