Daniele Suardi non è certo l’ultimo arrivato: un po’ di dischi con il progetto Il Garage Ermetico (il nome rimanda al fumetto di Moebius, certo) in tandem con Stefano Zenoni, Riccardo Zamboni e Maurizio Bonfanti, accolti sempre molto positivamente dalla critica specializzata, poi un EP come Montero. La sua dimensione come autore si è sempre collocata un po’ in bilico tra due crinali apparentemente opposti: da una parte una tradizione tutta italica di cantautorato abbastanza classico, dall’altra la sana voglia di fare casino mischiando le carte. Il Garage Ermetico ad esempio suonava come se Rino Gaetano si fosse dato all’hardcore punk (parole non mie). Ora Daniele ha partorito un nuovo progetto, questa volta da solo e con grandi novità.
Oh, D! è una creatura che concretizza definitivamente la sua voglia di sperimentare con cose diverse, di inseguire le voglie e le ispirazioni del momento senza porsi grossi paletti. La novità più importante rispetto al passato (anche se, come ci dirà, i semi già c’erano) è l’elettronica, neo-arrivata più evidente e caratterizzante del progetto. Restando nel mondo degli opposti che convivono, stavolta è un po’ come se gli Altro si fossero messi a fare synth-pop. Per tutto il 2022 Oh, D! è stata una pagina Spotify che si è periodicamente arricchita di nuovi singoli , pezzi pubblicati senza altro obiettivo che non fosse farsi ascoltare. Siccome sono tutti molto belli, abbiamo pensato fosse arrivato il momento di fare due chiacchiere con Daniele.
LR: Da Il Garage Ermetico a Oh, D!: è un percorso che ti ha preso un po’ di anni, e ti ha portato a fare qualcosa di molto diverso. Come sei arrivato a questa tua nuova “incarnazione”?
OD: In mezzo c’è stato anche un EP a nome Montero, che riprendeva un songwriting più tradizionale e classico. In origine comunque anche Il Garage Ermetico nasce come duo abbastanza sperimentale, con molta elettronica e un’impronta lo-fi. Quindi in un certo senso qualcosa del genere avevo e avevamo già. Adesso però mi ha guidato anche banalmente l’idea di non lavorare più in gruppo: l’avere sempre meno tempo, essendo tutti e due diventati grandi, l’idea di “smanettare” con il computer e prendersi il tempo per produrre e sperimentare un po’ di più in un altro ambito (quello appunto dell’elettronica e della musica più prodotta che suonata) sono cose che sono arrivate un po’ di conseguenza.
LR: La pandemia ha influito in qualche modo su questa volontà solipsistica?
OD: Certo: l’essere in casa davanti al computer a lavorare da solo, iniziando a scrivere e sperimentare più in solitaria è venuto anche per l’isolamento forzato. Quindi sì, il cambio di stile deriva anche da una modalità di scrittura diversa, non più in saletta ma in solitudine.
LR: Come vivi la mancanza di confronto che inevitabilmente deriva da questa scrittura più autonoma?
OD: Naturalmente scrivere in una band comporta sempre una scrittura più di compromesso, che è anche una delle cose più belle: condividi musica con gli amici, ed è un’esperienza molto bella. Dall’altra parte così ho più libertà di sperimentare e di identificarmi totalmente nel progetto, con i pro e i contro che questo comporta. Ad esempio mancando il confronto, il rischio a volte è quello di ripiegarsi un po’ su sé stessi. Quindi a volte mando il pezzo a qualcuno per chiedergli un parere, e spesso arrivano feedback che danno una “raddrizzata” ai pezzi. Anche lavorando da solo ho sempre bisogno di uscire dalla mia “bolla” ogni tanto, quindi ho comunque un gruppo di ascoltatori fidati a cui faccio sentire quello che sto facendo in pre-produzione.
LR: La scelta del nome non è troppo intuitiva: ho provato a scrivere su Google “Oh, D!” e i risultati non avevano mai nulla a che fare con il tuo progetto.
OD: Al nome ho pensato un bel po’, avevo anche scritto un bell’elenco di idee più o meno catchy, orecchiabili e memorizzabili. Poi ho pensato che essendo questo un progetto mio, in cui dovessi specchiarmi, avrei dovuto chiamarmi semplicemente D. Poi ho deciso di aggiungere un pizzico di drama e pathos, ed è diventato Oh, D!. Ho pensato che dovessi staccarmi da questa dipendenza dai motori di ricerca e dagli algoritmi: se i pezzi funzionano, chi ha bisogno di ascoltarli saprà trovarmi.
LR: Facciamo il solito giochino del genere: come definiresti quello del tuo progetto? Cos’hai ascoltato che più ti ha influenzato nell’arrivarci?
OD: Potremmo dire che è una sorta di indietronica. Potrebbe essere? Oppure indie-lo-fi, o electro-indie. Mi piacerebbe che la parte elettronica e “synth” fosse accompagnata da un colore più acustico e che rimandi al songwriting più tradizionale. Come ascolti ti citerei i Lambchop, quando hanno deciso di inserire l’elettronica nei loro pezzi; poi c’è un album che mi ha molto segnato, «Perils from the Sea» di Mark Kozalek e Jimmy Lavalle; poi gli album di Bon Iver della sua seconda fase, quella più elettronica e barocca. Non c’entro molto, ma un grosso input mi è venuto anche dall’ascolto di Blood Orange: «Cupid Deluxe» mi è piaciuto moltissimo: lui è sia r&b che indie e lo-fi e al contempo anche molto raffinato. Poi l’esito finale è completamente diverso rispetto al mio, perché lui ha una radice soul che a me manca completamente, ma mi piace molto come mescola queste influenze nei pezzi.
LR: Cosa usi per produrre? Fisicamente intendo…
OD: Ho allestito un piccolo spazio. Niente di sensazionale: qualche drum machine analogica, qualche tastierina. Poi c’è Ableton, il computer, chitarre acustiche ed elettriche, basso. Cerco di mescolare tutto questo, anche se è ancora tutto un work in progress e ci sono diverse cose che ho in testa di comprare.
LR: Scrivi in acustico o produci prima il beat?
OD: Il bello di lavorare da soli è che parti da quello che ti piace in quel momento, senza darti alcun vincolo. Se ti piace quel suono di drum machine, ti metti lì e nasce un beat. Dopo dal beat prendi in mano la chitarra acustica e puoi decidere di cambiare completamente direzione. Il primo pezzo che ho scritto, «Gigante», è abbastanza emblematico: mi sono proprio detto di seguire il flusso, seguendo quello che mi piace. Infatti contiene tre o quattro sezioni che spostano completamente il baricentro della canzone. È una scrittura un po’ schizofrenica, infatti quando poi passo i miei pezzi da equalizzare ai ragazzi che mi aiutano vengo maledetto perché c’è da diventare matti.
LR: Hai già pensato di portare questi nuovi pezzi in una dimensione live?
OD: L’esigenza primaria per me ora era di ritagliarmi uno spazio per continuare a scrivere e produrre. Poi facendo uscire un singolo ogni due mesi circa per tutto il 2022, vedere se qualcosa si fosse mosso cercando di farmi conoscere. Quando il repertorio sarà abbastanza solido, mi piacerebbe chiamare qualcuno per aiutarmi in un’ipotetica sede live, perché vorrei restituire un’impronta suonata all’esibizione anche se è più complicato. Non vorrei andare sul palco a schiacciare play e cantarci sopra.
LR: C’è anche l’idea nel prossimo futuro di pubblicare un disco che raccolga i pezzi di questi mesi?
OD: Ci sto ragionando: da una parte mi chiedo che senso possa avere un disco oggi, nell’epoca digitale e dei singoli; dall’altra mi piacerebbe fare qualcosa che resta. Premettendo che ho ancora un paio di pezzi che vorrei far uscire prossimamente, mi piacerebbe poi mettere un “punto e a capo” che chiuda un po’ questo ultimo anno e mezzo per poi ripartire con altre canzoni e magari una dimensione live. Però mi piace che ci sia questo flusso di scrittura e di pubblicazione senza l’implicazione di tempistiche e di formati, che hanno un senso ma non so se hanno ancora quel senso che avevano dieci anni fa.
LR: Pensi che il progetto sarebbe stato diverso se tu non vivessi a Bergamo?
OD: La città di Bergamo è abbastanza presente nei miei pezzi, spesso non in maniera esplicita: capita che le canzoni mi vengano in mente pedalando in giro. Comunque è una città che ha una dimensione molto “ibrida”: c’è la parte più “urbana” che vive a stretta contatto con quella più naturale: boschi, il Parco dei Colli, Astino. Anche nella mia musica c’è questa ibridazione tra acustico ed elettronico, tra l’urban e l’indie.