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Musica come catarsi, la storia e l’esordio dei Long White Clouds

Intervista. Cosa unisce un neozelandese, due bergamaschi e un americano? La musica! Il prossimo 25 ottobre i Long White Clouds pubblicheranno il loro primo disco, «Aeroplanes», un mix di rock, pop e grunge con melodie avvolgenti e testi profondi. La loro storia, tra viaggi, amore e amicizia, in questa esclusiva intervista.

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Long White Cloud band

Un neozelandese, due bergamaschi e un americano del Minnesota: sembra una barzelletta, e invece sono i Long White Clouds, un gruppo da tenere bene d’occhio che il prossimo 25 ottobre pubblicherà il suo primo disco. La band ha un nome evocativo che rimanda direttamente alla terra d’origine del loro leader, Andy Burch: nella lingua maori la “lunga nuvola bianca” è la Nuova Zelanda, dalla forma allungata delle due isole principali.

Da uno dei posti più lontani da Bergamo nel mondo, ecco un ponte che unisce la cittadina costiera di Napier, la terra orobica e pure il Minnesota. Come è potuto accadere tutto questo ce lo racconta direttamente Andy, che abbiamo raggiunto per una bella chiacchierata sul gruppo e sulla sua storia, oltre che sul disco in arrivo.

«Aeroplanes» è il debutto sulla lunga distanza di questo gruppo geograficamente promiscuo: 8 pezzi che si muovono tra rock, pop e qualcos’altro - immaginatevi un grunge ingentilito che va a braccetto con melodie à la Alkaline Trio, e vi sarete vagamente avvicinati. Sicuramente è un disco scritto, arrangiato e prodotto molto bene, con qualcosa da dire e un’anima tutta sua. Ma lasciamo la parola a Andy.

LR: Parlaci un po’ di te: Nuova Zelanda-Bergamo andata senza ritorno, come è successo?

AB: Grazie all’amore, il motivo più forte del mondo. Incontrai mia moglie in Australia, a Melbourne, nel lontano 2007. Ci siamo innamorati e abbiamo passato là un anno insieme; poi il suo visto è scaduto e lì sono abbastanza cattivi, cacciano via la gente alla svelta per questo motivo. Quindi lei è dovuta tornare qui in Italia. Ero un po’ disperato: decisi di risparmiare tutti i soldi che avessi potuto per rivederla, e così sei mesi dopo eccomi qua. Era fine giugno 2008, quindi ormai sono qui da quasi 17 anni.

LR: A quando risale il tuo incontro con la musica?

AB: Sono cresciuto in una piccola città sulla costa, Napier, in una famiglia di musicisti e amanti della musica: questo contesto mi ha permesso di sperimentare con vari strumenti fin da piccolo. Ho suonato il violino alle medie, anche se mi vergognavo un pochino perché non era uno strumento molto rock.
Così iniziai a strimpellare la chitarra di mia mamma che c’era in salotto, imparando da autodidatta a suonare la musica che mi piaceva: Smahing Pumpkins, Pearl Jams, Nirvana, tanto grunge insomma. Iniziai anche a scrivere pezzi miei intorno ai 14/15 anni. Per me fu un grande sfogo; a quel tempo la mia famiglia subì un grande lutto: la morte di mia sorella Emily a soli 16 anni. Trovai una mia catarsi grazie alla musica; suonai per un po’ in un gruppo metal che si chiamava «Trauma», neanche a farlo apposta. Da quel momento ho sempre usato la musica per far uscire i miei pensieri e trovare chiarezza.

LR: Anche tu e tua moglie vi siete conosciuti grazie alla musica?

AB: Inizialmente la musica non c’entrava: eravamo colleghi di lavoro, poi parlando abbiamo scoperto di avere gli stessi gusti. È stato importante per rinforzare l’inizio del nostro rapporto: avevamo sempre qualcosa da dire l’una all’altro.

LR: E poi, i Long White Clouds…

AB: Appena prima di venire in Italia pubblicai il mio primo EP da solista, al cui interno ci sono molti riferimenti a Stefania, quella che sarebbe diventata mia moglie e alla paura di non vederla più. Poi presi questa decisione difficilissima, di mollare tutto - percorso musicale compreso - e venire in Italia. Qui non conoscevo nessuno eccetto lei, quindi non sapevo neanche bene come avrei fatto a portare qui la mia “parte musicale”. Poi Stefania mi ha fatto conoscere diversi suoi amici, tra cui Matteo Panza e Nicola Lazzaroni, i due bergamaschi nel gruppo. Loro ai tempi avevano un gruppo che si chiamava Club Fools, e mi invitarono per qualche jam insieme.
I Long White Clouds nascono qui, in tre e senza un batterista. Inizialmente ci arrangiavamo con una drum machine e alcuni sample, ma ben presto capimmo di avere la necessità di un suono più rock, perché quello era lo spirito delle canzoni che scrivevamo. Senza la batteria sembrava sempre mancare qualcosa.

LR: Questo è il vostro primo vero disco, ma dalla nascita della band sono passati quasi 16 anni. Come mai questa lunga attesa?

AB: Perché a un certo punto, nel 2014, ci siamo sciolti. Siamo tutti e tre diventati papà: prima Lazza, poi due mesi dopo io e due mesi dopo di me anche Matteo. Di comune accordo abbiamo deciso insieme di lasciare da parte il gruppo per un po’ così da poterci dedicare alla famiglia. Era diventato difficile anche andare a fare le prove: essere un padre è un impegno davvero speciale. Noi tre non ci siamo mai persi di vista, siamo rimasti sempre grandi amici con l’intenzione di tornare a suonare insieme prima o poi. Questo poi è successo effettivamente quattro anni dopo, nel 2018.

LR: È stato strano?

AB: Ci siamo ritrovati un po’ diversi: ad esempio Matteo ha iniziato a suonare il basso, cosa che non faceva prima, quindi grandi applausi per lui.

LR: Le canzoni che troveremo nel disco risalgono a prima della pausa o sono pezzi nuovi?

AB: Sono tutti pezzi nuovi, composti negli ultimi quattro anni. Quando è arrivato Mike, il nostro batterista americano (viene dal Minnesota), è iniziato per noi un periodo particolarmente fruttuoso, anch’io mi sentivo molto prolifico.

LR: Scrivi tu tutti i pezzi?

AB: La maggior parte dei pezzi proviene dalla mia stanza e dalla mia chitarra. Poi si trasformano e si arricchiscono grazie al contributo di tutti: siamo molto democratici e collaborativi. Penso sempre che siamo tutti al servizio della canzone, dobbiamo sganciarci da noi stessi. Credo che siamo sempre tutti su questa lunghezza d’onda, senza che ci sia bisogno di dirlo ad alta voce. Giochiamo di squadra, ed è una cosa bella.

LR: Cosa ti piace ascoltare?

AB: Domanda sempre difficile. Sono vissuto immerso nella musica, ho esperienze anche come attore di musical. Amavo i dischi degli anni ’50 che ascoltava mio padre, ma per dire due CD che sono girati molto in casa mia sono i due Greatest Hits dei Queen. Quando poi ho iniziato a fare le mie scelte da adolescente ero molto attratto dal grunge: i Tool, gli Smashing Pumpkins, Pearl Jam, Nirvana.
Ultimamente sono molto eclettico, ascolto un po’ di tutto: mi piace moltissimo l’ultimo disco di Billie Eilish, ma anche Chapelle Roan, Taylor Swift, cerco di ascoltare più cose che posso. Mi piace anche andare in giro qui nella bergamasca e “spiare” gli altri artisti: in questo momento c’è una marea di nomi validi qua, che stanno facendo cose veramente belle e stimolanti. In generale la qualità si sta alzando sempre di più, anche in termini di posti dove andare a suonare o ascoltare musica. Una cosa che non c’era all’inizio, quando sono arrivato.

LR: A proposito di questo: che differenze hai trovato tra la scena neozelandese in cui sei cresciuto e quella bergamasca di cui sei entrato a far parte? Parlo non tanto di aspetto musicale in senso stretto, quanto più di approccio, tendenze, musica dal vivo, ecc.

AB: Quando arrivai qui fui sorpreso dalla mancanza di posti in cui suonare o ascoltare musica dal vivo. In Nuova Zelanda è molto importante l’aspetto performativo della musica, così come quello comunitario. La città dove sono cresciuto ha più di 50mila abitanti, e poi sono 50 km prima della città più vicina. Questo senso di appartenenza spinge i più giovani a partecipare. Qui ha Bergamo questa cosa è stata un po’ più difficile da trovare, almeno per una persona nuova come me. Da dove vengo io è facile trovare tre, quattro bar con gente che suona dal vivo qualsiasi giorno della settimana. Però qui ho visto tantissima crescita negli ultimi anni.

LR: Tornando al disco: mi hai parlato di grunge e simili. Nel vostro caso i suoni mi sembrano “aperti”, mentre la cupezza arriva dai testi.

AB: Esatto. Amo la melodia, mi piace collocarci in ambito pop-rock, o alt-rock, ma senza incupirci molto. I testi invece sono caratterizzati da momenti difficili che ho vissuto, quello che mi ricordano. Sono cose che sento il bisogno di portare fuori, che rispecchiano il mio stato di salute mentale, attuale o passato.

LR: Qual è il tuo pezzo preferito del disco?

AB: In questo momento «The Decider». Parla della difficoltà di fare scelte, di decidere. Io soffro di ADHD, diagnosticato in età adulta. In quella canzone porto la mia difficoltà a prendere una decisione quando posto davanti a diverse opzioni.

LR: Tour in programma?

AB: Un piccolo tour nella Lombardia, suonando anche a Milano. Faremo il release party da Edoné, che è casa nostra.

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