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Maria Chiara Argirò e La Via del Ferro aprono a nuove rotte jazz

Intervista. «Bergamo Jazz» ospita il quartetto internazionale guidato dal compositore Michelangelo Scandroglio con Maria Chiara Argirò al pianoforte e synth, Alex Hitchcock al sassofono e Myele Manzanza alla batteria

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La Via del Ferro

Un nome che richiama strade antiche e un suono che lega tradizione e innovazione: La Via del Ferro. L’idea nasce da Michelangelo Scandroglio, contrabbassista e compositore toscano, che ha trovato nella forte scena jazz londinese il terreno perfetto per dare forma a una visione musicale innovativa. Il nome del gruppo richiama l’antica rotta commerciale che collegava la Toscana a Londra, una metafora perfetta per il melting pot sonoro del quartetto che salirà sul palco dell’Auditorium di Piazza della Libertà per «Bergamo Jazz Festival» il pomeriggio del 21 marzo. Ad affiancare Scandroglio in questo viaggio musicale ci sono tre nomi noti della scena contemporanea: Maria Chiara Argirò (pianoforte e synth), italiana trapiantata a Londra e figura di riferimento nel jazz elettronico, il britannico Alex Hitchcock, improvvisatore e una delle voci di riferimento del sassofono, e il batterista neozelandese Myele Manzanza, la cui ritmica affonda le radici nel jazz ma si contamina con afrobeat ed elettronica.

Il sound de La Via del Ferro è una sintesi perfetta tra groove e improvvisazione, un equilibrio tra composizione e libertà espressiva che ha attirato l’attenzione di critici e addetti ai lavori, come il noto dj e produttore britannico Gilles Peterson. Il set al «London Jazz Festival 2023» ha confermato la capacità del gruppo di trascinare il pubblico in un’esperienza immersiva, fatta di sonorità fluide e imprevedibili, un approccio che sfida i confini del jazz tradizionale e si proietta in avanti.

Il concerto del 21 marzo a Bergamo è una delle rare occasioni per ascoltare in Italia questa formazione che non è solo un gruppo, ma un manifesto sonoro: un jazz senza passaporto, dove le influenze si mescolano e si trasformano in linguaggio universale. In vista del concerto Maria Chiara Argirò ci ha raccontato come vede il jazz di oggi, tra nuove influenze e la necessità di un cambio di passo nella rappresentanza femminile. Pianista, compositrice e sperimentatrice, è romana di nascita e londinese d’adozione, il suo percorso attraversa jazz, elettronica e sonorità ibride che sfuggono a ogni etichetta.

CD: Il gruppo è nato da una residenza artistica. Si parla spesso di prodotti finiti, del risultato, ma è importante soffermarsi sul processo creativo e di ricerca. Considerando che provenite tutti da realtà diverse, non solo artistiche e musicali, ma anche geografiche, com’è nata questa esperienza?

MCA: Tutto è nato grazie a Michelangelo Scandroglio, che è stato la miccia. Ogni estate, tramite «Toscana Produzione Musica», organizza delle residenze artistiche alla Fonderia Leopolda di Follonica. Abbiamo lavorato insieme per una settimana, giorni intensi durante i quali il gruppo ha iniziato a prendere forma. L’idea alla base era quella di mettere insieme quattro personalità con approcci musicali diversi, ma che provenissero tutte dal jazz contemporaneo. La residenza è stata molto produttiva, nel giro di pochi giorni abbiamo preparato un repertorio di circa un’ora e un quarto, conoscendoci musicalmente e cercando una visione comune. Quando si proviene da mondi diversi, trovarsi in un processo creativo collettivo è una sfida stimolante, soprattutto considerando che ognuno di noi è leader di altre formazioni e compositore a sua volta.

CD: E come avete costruito, nello specifico, questo linguaggio comune?

MCA: Ognuno ha portato delle idee: chi aveva già un brano più strutturato, chi invece delle bozze su cui lavorare insieme. L’aspetto interessante è stato proprio questo: confrontarsi con personalità musicali molto forti e cercare di amalgamare i diversi stili. Le composizioni hanno una struttura solida, ma sono in continuo mutamento. Quando suono con Alex, Myele o Michelangelo, so esattamente chi sta suonando perché ognuno ha un’identità ben definita. Il lavoro quotidiano iniziale è stato fondamentale: studiavamo ogni passaggio, battuta dopo battuta, cercando di costruire un flow e una dinamica che ci permettessero di passare con naturalezza da momenti più articolati e intensi ad altri più distesi. Per me è stato importante contribuire con i sintetizzatori, pur avendo suonato principalmente il pianoforte, ho voluto portare un elemento elettronico nel suono complessivo. Mi interessa sempre trovare un equilibrio tra la dimensione più organica e quella elettronica, cercando un’interazione.

CD: Qual è il punto comune, il messaggio, nonostante le diverse provenienze e influenze musicali?

MCA: Veniamo da studi di jazz, sia tradizionale che contemporaneo. Nel tempo ognuno ha preso strade leggermente diverse, ma il nostro linguaggio di base è rimasto quello. Anche se ora mi occupo più di musica elettronica, non cambia che, quando suoni con musicisti dalla forte personalità, il centro diventa creare qualcosa che unisca. L’elemento che più mi ha colpito in questo gruppo è l’energia: quando suoniamo, c’è un’intensità tangibile. Anche nei momenti più rarefatti, più vicini a una ballad, si percepisce qualcosa di vulcanico che ribolle sotto la superficie. Ogni live può essere leggermente diverso: posso cambiare il suono dei miei sintetizzatori, modificare l’approccio alla melodia, e lo stesso vale per gli altri membri del gruppo. L’equilibrio tra scrittura e improvvisazione è molto forte, non ripetiamo mai le cose in modo identico, ogni volta c’è un input nuovo, dato da un musicista o da una situazione imprevista. È un continuo trasformarsi, mantenendo però una coerenza di fondo. Tutto può cambiare, ma rimanendo sempre se stesso.

CD: Tre di voi vivono a Londra e questo ha un impatto sulla vostra musica. La scena jazz londinese è tra le più vivaci e ibride al mondo. Quali sono le tendenze più interessanti che si stanno sviluppando oggi? In che modo ti senti parte di questa evoluzione, o ti senti in contrasto?

MCA: Negli ultimi anni ho visto un aumento significativo dell’uso dell’elettronica, dell’ambient con molti effetti. Se pensiamo a dieci anni fa, quando nomi come Shabaka Hutchings hanno segnato una corrente ben precisa, possiamo dire che oggi la scena stia cambiando. Shabaka stesso sta esplorando direzioni completamente nuove, perché non si può restare fermi a un suono dieci anni fa. Ad esempio, al Ronnie Scott’s (storico club jazz londinese, ndr) ci sono sempre più serate electro-jazz, dove il sassofono viene utilizzato con effetti digitali, accompagnato da sintetizzatori e strumenti elettronici. Nonostante questa spinta verso l’innovazione, il cuore della scena resta il groove. C’è una forte connessione con il jazz contemporaneo americano e il suono si sta evolvendo in una direzione sempre più ritmica e stratificata.

CD: E come vedi invece la scena jazz italiana in questo momento?

MCA: Ci sono tante cose che stanno accadendo e se ne sta parlando sempre di più. È interessante perché ci sono molti giovanissimi di grande talento. Non parlo solo di virtuosismo, ma proprio di un interesse verso nuove sonorità. Sento influenze esterne e questo mi sembra un segnale positivo, non si tratta di un “rifarsi” ad altri stili, quanto piuttosto di un’apertura. Mi sembra che il jazz italiano stia assorbendo nuovi stimoli e ampliando i propri orizzonti, quello che spero è che questa evoluzione possa riflettersi anche nel pubblico. In alcuni Paesi il pubblico del jazz è molto giovane, mentre in Italia si ha ancora l’idea che sia un genere riservato a una nicchia più ristretta. Tuttavia, noto che qualcosa sta cambiando, non so se sia diventato cool come a Londra perché in Italia il cambiamento è lento, ma nei festival a cui ho partecipato ho notato un’evoluzione. C’è una rottura, seppur graduale, con alcuni schemi del passato.

CD: Il jazz ha sempre avuto un problema di rappresentazione femminile, ma forse anche in questo qualcosa sta iniziando a cambiare. Credi che la nuova generazione di musiciste stia trovando un terreno più fertile o senti ancora resistenze strutturali?

MCA: Non siamo ancora arrivate a un ideale di parità, ma le cose si stanno muovendo. Vivendo all’estero da dieci anni, noto che ci sono più opportunità, ma il problema riguarda tutta la musica. Basta guardare i cartelloni dei festival: la presenza femminile è ancora una netta minoranza. Se ne parla molto, ma il cambiamento effettivo non si vede ancora e non certo per mancanza di musiciste: di jazziste talentuose ce ne sono tantissime! Il problema è che spesso non viene dato loro lo stesso spazio, le donne devono sempre dimostrare di più, ma questo vale in ogni ambito, lo sappiamo bene.

CD: «Bergamo Jazz» ha un pubblico affezionato e consolidato. Cosa devono aspettarsi dal concerto de «La Via del Ferro»? Cosa vorresti dire a chi verrà ad ascoltarvi?

MCA: Spero che sia una sorpresa! «La Via del Ferro» è una band piuttosto insolita, soprattutto per il discorso che facevamo prima. Ognuno di noi ha una personalità musicale molto forte e diversa, ma alla fine riusciamo a creare un linguaggio comune che, spero, possa affascinare il pubblico. L’idea è proprio quella di mostrare come la musica possa unire mondi differenti.

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