“Il nuovo lavoro del Bepi. Forse l’ultimo. Il leit-motiv è la sperimentazione. 13 tracce assolutamente folli, soprattutto per ciò che concerne la loro realizzazione, senza tuttavia mai rinunciare al piacere d’ascolto. Come sempre ci sono tracce in bergamasco, in italiano e... in inglese!” Poche righe per annunciare l’uscita del nuovo disco de Il Bepi, “All the young dudes”, disponibile dallo scorso dicembre, parole intrise di amarezza che ventilano la fine del percorso di uno dei fenomeni che dal 2005 a oggi ha caratterizzato la nostra provincia.
Il Bepi non è stato solo un “cantautore goliardico”, anzi non lo è più da tempo, gli ultimi dischi racchiudono anche canzoni “serie”. Ma la figura che Tiziano Incani ha creato nei primi anni Zero, nonostante un evidente percorso di cambiamento, è rimasta fissa nell’immaginario collettivo come il diorama di un cantante che raccontava i lati comici, se non demenziali, della remota provincia bergamasca, il suo mondo, e anche il nostro. Con un utilizzo del dialetto bergamasco di altissimo livello, capace di fare proprio l’uso quotidiano di una lingua che è l’anima di un popolo – quello della Val Seriana in primis – cogliendone le sfumature e i personaggi, come del resto nel primo romanzo di Incani, “Il Castello”, di cui abbiamo parlato qui.
Dispiace dunque cogliere una profonda disillusione nel presentare questo dodicesimo lavoro. Sia perché Il Bepi, nel raccontare in bergamasco, non ha nulla da invidiare a nomi come Davide Van De Sfroos o Luigi Maieron. Sia perché “All the young dudes” è un disco bello, intenso e anche divertente, che cita David Bowie e lo omaggia con una efficace rilettura piano e voce di quello che ancora oggi è considerato uno degli inni dell’epoca glam (pubblicato dai Mott the Hoople nel 1972). “Non sovraccarichiamola però di importanza – ci tiene a precisare lui – Il termine inglese ‘dudes’ (che in italiano starebbe per ‘fighetti’, più o meno) qui va letto ‘dùdes’ (dodici, in bergamasco). Certo, la canzone comunque merita e l’attinenza col resto, tutto sommato, c’è, ma una cover di questo brano non è certo chissà quale idea originale. Lo è, al massimo, averla fatta in una veste così minimal, spogliata persino del riff di chitarra che l’ha resa celebre”.
Il disco, dicevamo, è uscito in sordina: nessuna promozione, quasi l’ha saputo solo chi segue la gniusletter, cioè la newsletter del Bepi. Perché così poco clamore? “Non lo so, a dire il vero. Un po’ sono stanco, anche di parlare delle mie cose (alimenta solo la mia frustrazione), e un po’ sono semplicemente disilluso. Se anche mi fossi impegnato per farlo uscire in pompa magna… sarebbe cambiato qualcosa? Per la gente il Bepi ‘le canzoni belle’ le ha già scritte 20 anni fa (quasi). Diciamo che credo sì a fondo nella qualità artistica di ‘All the young dudes’, ma molto meno nelle sue potenzialità commerciali. Non per uno di 48 anni e così poco allineato”.
Quello che colpisce di Tiziano Incani è la lucidità: la consapevolezza che il personaggio Bepi “goliardico” è rimasto tale agli occhi del pubblico (magari non di quello più fedele), la disillusione verso il mondo musicale che non ha dato alla sua musica le stesse chances che ha dato ad altri cantautori in dialetto (e qui qualche colpa il Premio Tenco ce l’ha). Al contempo la certezza di aver fatto un disco di qualità, uno dei più belli della sua discografia. Un’opera varia nei toni (malinconici, ironici, critici) e negli stili (rock, blues, folk acustico, elettronica), godibile all’ascolto, che svela col tempo sfumature feconde e particolarità testuali e sonore.
Se da un lato quindi la delusione è tanta, dall’altro la risposta a questo sconforto è la voglia di fare un disco libero dagli schemi, sorprendente per certi versi rispetto al personaggio-stereotipo del Bepi, “quello dell’immaginario collettivo, forse!”, come mi dice Tiziano, aggiungendo: “Il Bepi fa cose diversissime e ‘sorprendenti’ da parecchio tempo! Ma non c’è niente da fare: io sono quello di ‘Nömer dù’ e di ‘S3nù’ (2005 e 2006, ndr) e da lì non ci si muove. Vale per chi mi ama, vale per chi mi odia. Una delle mie ‘colpe’ è stata proprio quella di non scegliere un target di mercato a cui puntare dritto come un treno. Mi è sempre stato stretto tutto. Mi sta stretto tutto ancora oggi”.
Da qui anche la scarsa urgenza di fare concerti: “Mi manca la carica, mi manca la voglia… e mi manca da prima del Covid. Ho dato troppo e ricevuto troppo poco, probabilmente. Te lo dico senza false modestie. In una recente intervista ho sentito Luciano Ravasio dire che forse gli manca non aver mai avuto un vero appeal popolare. Io l’ho avuto; eppure non mi è bastato… Se uno nasce in un modo, gira e rigira, così rimane. Io di far finta di essere chi non ero mi sono rotto abbastanza alla svelta”.
Ecco allora che “All the young dudes” si apre con due brani tanto suggestivi quanto malinconici, dove il cantato sommesso si accompagna all’elettronica: “‘Cosa volete? Cosa mi piace?’ racconta la mia profonda crisi di fronte a ciò che oggi è (o parrebbe essere) la musica, ma, al di là del contenuto, è anche un folle esperimento artistico. Tutte queste idee ‘malsane’ sono ampiamente trattate nel libro ‘Terza appendice di Proud’ (una sorta di guida all’ascolto di questo disco, mentre il disco precedente è scandagliato in “Seconda appendice di Proud”, ndr), un altro di quegli scritti miei che, oltre che a me, piacciono forse a quattro o cinque persone. Quando arriva la sesta stappiamo una bottiglia di quelle buone…”. “I tò culùr” invece “è un omaggio al mio cane che non c’è più. Ultimamente molto di ciò che faccio ruota attorno alla sua figura”.
Per avere poi una prova della bravura del Bepi nel ritrarre i bergamaschi e la loro bergamaschicità, c’è “Bergamàsch”, una fotografia nitida dell’essere bergamaschi, in certi punti critica, in altri affettuosa, sempre caratterizzata da un certo orgoglio: “Io non sono tipo da hashtag o da slogan. I bergamaschi (almeno quelli della ‘provincia remota’, come li chiami tu) mi fanno un po’ pena e tra loro mi ci metto ovviamente pure io. Puoi credere, forse, ne esistano di migliori, ma non puoi non voler bene all’humus che ti ha cresciuto”.
Se “Bergamàsch” è uno sguardo dentro la provincia, “Miti”, in italiano, getta lo sguardo “fuori” e si riferisce “ai grandi, quelli veri. Stupidamente li si vorrebbe perfetti, magari anche in tutti quegli ambiti dove non è poi così fondamentale lo siano. Non è che Paolo Conte o Franco Battiato, tanto per fare due esempi, dovessero per forza toccare chissà quali apici di originalità o di bellezza in ogni intervista che rilasciavano, magari messi pure in difficoltà da contesti che creavano in loro disagio. Tuttavia, appena lasciavi che facessero ciò che davvero sapevano fare bene, pòta… öt diga cusè (pòta, cosa gli vuoi dire, ndr)?”.
Libertà significa concedersi anche un pezzo country trotterellante con una fuga strumentale in chiusura come “Té ta sé mia lé”: “Negli ultimi album la figura del Bepi rigidissimo arrangiatore e produttore artistico (pur con il costante aiuto tecnico di Alberto Sonzogni) si è resa, forse, un pizzico più invisa al concetto di band sinergica che tanto garba agli spettatori e ai musicisti. In alcuni casi mi piace, quindi, dare un po’ più spazio a questi ultimi. È un po’ come quando porti a lungo un cane al guinzaglio e, arrivato in un bel pratone, finalmente gli dici: ‘Vai! Gioca! Corri! Sfogati! Divertiti!’”.
E passare successivamente ad un pezzo elettro-pop da manuale, fra Gaber e i Pet Shop Boys, qual è “La pornografia”: “Il titolo è uno specchio per allodole. Di fatto è un pezzo antropologico. Politica e pornografia vanno a braccetto. A volte di un popolo si capisce molto di più da come fa sesso che dai libri di storia. È l’unico aspetto-utile di quest’orribile e galoppante inflazione del ‘proibito’. Non è che mi scandalizzo, intendiamoci: sbadiglio! Chi come me cerca ancora ‘intrigo, malizia e passione’ (tanto per autocitarmi) che se ne fa delle cose più turpi del globo, inviate da qualche amico, magari alle 9 di mattina, al suo numero WhatsApp? Nella migliore delle ipotesi sorride sconcertato. È dunque questa oggi la funzione del sesso?”.
Un’intenzione analitica che torna nell’ironia ficcante di “Blüs dol rüt”, un bluesettone sul “dilemma” della raccolta differenziata, dove la voce del Bepi dialoga con quella del sindaco Giorgio Gori: “È la canzone più semplice del disco, tutto sommato, e forse anche l’unica che conserva l’antico appeal popolare del Bepi. Chi non si è fatto la domanda: ‘Pòta, ma chèl laùr ché ‘n do ‘l böte?’ (‘Pòta, ma questa cosa dove la butto?’, ndr). Mi piaceva l’idea di ricreare lo scontro ‘rozzo vs fighetto’ che tanto divertì il pubblico in ‘Bank Blues’ (2006, ndr). Pensando alla figura di un Sindaco bergamasco ho puntato in alto e… mi è andata bene: Giorgio mi ha detto ‘Ok’ prima di quanto credessi”.
Tirate le somme viene da dire che se l’amarezza è parecchia lo è parimenti l’ispirazione di un autore oggi saldamente maturo, capace di governare la propria musica con sfaccettature fra le più diverse. Forte di una capacità lirica in dialetto che ha pochi eguali (vedi l’emozionante bozzetto a due chitarre acustiche di “Felicita e Thomas”, tratta da un doloroso fatto di cronaca), a cui è difficile non rispondere con un incoraggiamento ad andare avanti. E allora fregatene Bepi, non contano il successo, i numeri, la comprensione del pubblico se alla fine a imporsi è soprattutto una forma di bellezza pura e libera. Quella che rende più preziosa la vita delle persone che la ascoltano. Tante o poche che siano.
Ps: la Limited Edition di “All the young dudes”, in legno di pino massello, contiene il libro “La terza appendice di Proud”, un capo d’abbigliamento del Bepi a scelta tra quelli ancora disponibili in magazzino, la chiavetta USB in legno d’acero con tutta la discografia del Bepi in mp3 e 3 bottiglie di vino “bergamasche che mi hanno emozionato e che consiglio, attraverso una specifica guida di 8 pagine, di ‘abbinare’ all’ascolto specifico dei brani”.