Il buon Lodo Guenzi cantava in uno dei testi che lo hanno consacrato al grande pubblico: «La musica ti salva / ti riduce in miseria / la musica ti uccide / la musica non è una cosa seria». Lungi me il voler cadere nella trappola del citazionismo, penso però che questa frase calzi a pennello per sintetizzare la quintessenza del «pensiero popperiano». E qui non intendo certamente riferirmi al pensatore a Karl Popper, bensì al frontman dei Pop X. Che con una semplicità disarmante ha esposto la sua idea di espressività artistica che ci catapulta all’interno di un sentiero onirico nel quale si danno appuntamento tutti coloro che hanno voglia di perdersi.
Allora, eccolo che torna Popper, il filosofo, a ricordarci del nostro ontologico bisogno di cercare risposte, che ci rende saggi e al tempo stesso schiavi. Schiavi delle definizioni, degli archetipi, di un ideale di perfezione che ci fa dimenticare quanto sia importante ridere di cuore, ballare, lasciarsi andare, cantare parole a caso o dargli il senso che si vuole o non rivelarlo affatto, perché, molto spesso il senso di tutto si nasconde proprio in quel vuoto.
Tutto questo e molto altro è la musica di Pop X. È abbracciare l’origine dei propri istinti, di un ritorno al passato, al sapore autentico di una fetta di pane tagliata in modo grossolano da tuo nonno, al ricordo dei suoi capelli bianchi. «Quell’uomo che tocca / col dito il tuo cuore/ raccolto e sfinito». Abbiamo intervistato Davide Panizzi, che di Pop X è la voce (e la mente).
CP: Ho sempre immaginato nella mia testa di fan pigra, il nome del tuo collettivo come Pop Ics. Solo recentemente ho scoperto che la X indica una preposizione semplice, quindi pop per. Quando immagini il pubblico che ascolta la tua musica, che tipo di persone vedi?
DP: Diciamo avendo cominciato a suonare nel 2005 ho la fortuna di poter dire che il mio pubblico è molto variegato. È anche abbastanza divertente quando si creano dei contrasti anagrafici tra chi ti segue da sempre e le nuove generazioni. Quindi se dovessi immaginare dei volti, ti direi un pubblico a metà strada. Sarebbe interessante chiedere a loro cosa sentono di avere in comune.
CP: Il linguaggio che usi nelle canzoni è spesso allusivo, provocatorio, sdoganante. A tratti, sembra di trovarsi nel sogno di qualcun altro che è così divertente da non volersi svegliare. Hai mai avuto paura di essere frainteso?
DP: Il modo in cui comunico e mi pongo nelle mie canzoni è diventato ormai proverbiale ed è dettato da scelte ben precise. Non temo di sottopormi al giudizio altrui per il semplice fatto che sarei in grado di motivare il significato di ogni mia azione. O forse il punto è proprio che non mi sento in dovere di motivarla.
CP: Ci sono spesso dei riferimenti nei tuoi testi al Trentino e al posto in cui vivi. In una delle tue canzoni immagini in futuro l’Italia settentrionale dominata dal mare con le estati da trascorrere sulle scale. È questa la tua visione utopica, per così dire, del futuro?
DP: Diciamo che ho sviluppato un istinto di autoconservazione; quindi, nel tempo ho capito che il successo nella vita consiste nel garantirsi una dignitosa sopravvivenza, al di là di tutte le intemperie che l’esistenza ci mette di fronte.
CP: Un atteggiamento rinunciatario o più un laissez-faire?
DP: Si tratta più che altro di capire che ciò che conta nella vita è prendersi cura di sé stessi, la salute dei propri cari, delle persone che ti stanno accanto, poter vivere sapendo che stanno bene. Poter vivere di quello che faccio e sopravvivere al di là di quello che faccio. Questo è il mio sogno.
CP: Quando pensi alla musica di oggi, dove ti collochi?
DP: Preferisco non collocarmi in un genere. Si tratta di una contaminazione che prende spunto dalla musica elettronica, dal cantautorato italiano e da mille altre cose. Poi è ovvio che ognuno utilizza gli elementi che preferisce e crea il suo frullato. Il mio assume il sapore degli ingredienti che lo contraddistinguono.
CP: Quindi hai una ricetta segreta?
DP: No! Nel senso che poi il mix cambia di volta in volta a seconda del disco. Il segreto, nel mio caso, è cercare di fare qualcosa che sia divertente. Magari nella musica è una prerogativa che manca nella maggior parte dei casi, perché ci si concentra sugli arrangiamenti o sulla necessità di far arrivare il proprio messaggio. Al contrario, io quando compongo, cerco sempre di divertirmi. O, almeno, quando ci riesco, penso di tirare fuori le canzoni più riuscite. Magari si tratta di un tipo di divertimento che riesco ad afferrare io e pochi altri, ma per me è una prerogativa imprescindibile che condivido con le persone che poi mi vengono a sentire nei concerti.
CP: Nei tuoi testi ricorre sempre un riferimento quasi non-sense ad una sessualità da vivere sempre al di fuori degli schemi. Se ti chiedessi di provare a darmi una definizione?
DP: In realtà non ho una vera e propria definizione. Io vivo di sperimentazione e per me la sessualità assume innanzitutto una dimensione ludica. Forse il paradosso della sessualità è che si finisce per prenderla sempre troppo sul serio. Certo, si tratta di una questione, intima, importante, ma io mi sento più una specie di giullare medievale a riguardo.
CP: Qual è la canzone che non manca mai nei tuoi concerti e come cambia il modo in cui ti approcci alle canzoni dal vivo?
DP: Quella che non manca mai nel nostro repertorio è «Io c’entro coi missili.», il nostro cavallo di battaglia e quello che ci unisce ai nostri fan. Per quanto riguarda la dimensione che assumono le canzoni nei live, sicuramente rispetto all’ascolto in casa si caricano di tutta la componente interpretativa, corporea, fisica, sia mia che di tutte le persone e i musicisti che mi accompagnano sul palco. Così come di tutte le persone che si sono susseguite nel corso del tempo nel nostro gruppo. Assumono una terza dimensione, per essere precisi.
CP: Qual è la fonte di ispirazione da cui è partita questa tua voglia di sperimentare sia a livello di produzione che di linguaggio e da dove parte la scintilla quando scrivi le tue canzoni?
DP: La scintilla parte da una necessità quasi politica di proporre qualcosa di diverso rispetto a tutto ciò che ascolto. Una spinta a cercare di proporre qualcosa di più curioso rispetto alle cose che vedo e che spesso mi sembrano mancare di quel pizzico di follia. La noia, ecco, è la molla che mi fa scattare. O meglio, la paura di annoiarmi, il fastidio.
CP: Qual è canzone che senti tua al punto che avresti voluto scriverla?
DP: È una domanda difficile. Ultimamente ascolto sempre «Country Road» di Jonh Denver che mi fa viaggiare molto. Sicuramente vorrei essere bravo quanto lui.
CP: «Il mio cuore è occupato» è una canzone del tuo ultimo album. Parli di una relazione a due, che ha tutte le caratteristiche per essere romantica. Qual è il posto che occupa oggi l’amore nella tua vita, oltre che nel cuore?
DP: Io sono rimasto fermo al libro di Eric Fromm «L’arte di amare» e da lì non mi sono mai mosso più di tanto. Per me l’amore è un lavoro che richiede impegno quotidiano, un lavoro che non ha solo a che fare con la sfera sentimentale ma anche con gli amici, i colleghi e tutte le persone che incrocio sulla mia strada per via della musica.
CP: A questo punto ti chiedo, qual è la metafora o la parola attraverso la quale descriveresti il tuo percorso artistico dal 2005 ad oggi?
DP: Senza pensarci troppo ti direi «gaio». È una parola che mi incuriosisce perché ho visto di recente l’intervista di un filosofo che raccontava di questo pianeta che si chiama «Gaia». E in effetti la sua etimologia si ricollega alla terra e ad un concetto di prosperità, di fioritura, di gioia e di benessere. Che poi, se vogliamo chiude un po’ il cerchio rispetto a ciò che dicevamo all’inizio. Però mi fa anche pensare a qualcosa di misterioso e per certi versi inaccessibile, oscuro, come il senso stesso della vita.