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Il nu-soul di Anna Bassy e le sue canzoni di guarigione

Intervista. La voce è soul, l’intenzione dei brani aggiunge nu (la parola che indica da tempo un’idea di “musica dell’anima” aggiornata). Tracce sospese in un’essenzialità basso-batteria-chitarra che fa da impalco alla voce calda, malinconica, nera e felpata. Venerdì 21 gennaio a Edoné Bergamo per la seconda data della rinascita di hashtag., ingresso gratuito

Lettura 6 min.

Anna Bassy è italo-nigeriana, percorre la strada della sua musica e della sua esistenza, una questione di radici che affiorano e altre da recuperare. Di lei si sta parlando molto.

LB: Come hai cominciato?

AB: Difficile dire come ho cominciato, la musica è sempre stata lì per quel che mi ricordo. Non in maniera strutturata, semplicemente come parte della vita. Mi piaceva ascoltarla, cantarla. I primi ricordi sono sicuramente legati ad altre persone che cantavano per me. Mia madre che mi cantava la ninna nanna. E poi una zia che mi accudiva mentre mia mamma era al lavoro: da lei ho imparato la naturalezza e la gioia del canto. È proprio lei che mi ha spinta ad entrare nella prima corale. Solo verso i 18 anni ho cominciato a considerare lo studio del canto, da lì l’iscrizione alle scuole di musica, le lezioni, le prime prove in band e i live.

LB: L’anno di svolta è il 2016. Che cosa è successo?

AB: Ero uscita dai vari progetti musicali nei quali ero coinvolta. Cercavo di capire quale fosse la mia relazione con la musica, non volevo più trovarmi a cantare cover durante gli aperitivi; rimaneva però il bisogno di esprimermi attraverso la musica. Era anche un anno particolare della mia vita, un momento in cui sentivo il bisogno di “riconciliarmi” con me stessa. Sono riuscita a farlo attraverso una canzone. Non era la prima che scrivevo, anche se è come se lo fosse. Con quel brano ho sentito forte la potenzialità della scrittura come strumento di guarigione, comunicazione, ricerca. E ho sentito forte anche la voglia di presentarmi così alle persone.

LB: Scrivi le tue canzoni con la chitarra, ma soprattutto con la voce. Che cosa rappresenta per te?

AB: La voce è il mio strumento. La chitarra sicuramente mi aiuta a strutturare i brani che scrivo ma non mi sento a mio agio nel suonarla. La mia voce è ciò che mi conosce meglio, perché in essa c’è tutto quello che sono e anche ciò che non conosco. Ed è il mio ponte verso gli altri. Faccio fatica a volte a raccontarmi, ad esprimere a parole come mi sento. La voce nel canto mi permette di farlo.

LB: R’n’b, gospel, roots raggae, nu-soul. Quali sono oggi i tuoi riferimenti principali?

AB: Ho sempre ascoltato molta musica, di diverso tipo, ma la musica nera verso i 13-14 anni ha monopolizzato i miei ascolti. Il primo cd, vinto con una telefonata a Radio 101, è stato “Confessions” di Usher, mentre il primo acquistato è stato “The Diary of Alicia Keys”. Da qui sono partita, ma la mia collezione di cd ha cominciato presto ad allargarsi, in particolare con quasi tutta la discografia di Ben Harper e Nina Simone, mia più grande musa. Ma anche John Legend, Mary J. Blige, Whitney Houston, Lauryn Hill, Erikah Badu, poi più recentemente Nneka, Ayo, Laura Mvula, Lianne La Havas.

LB: “Monster” il tuo primo ep, è essenziale quasi fino all’osso. E la voce in alcune parti diventa un sample.

È stata una scelta quasi inevitabile direi. Volevo solo esprimermi con coerenza e onestà e credo che l’essenzialità faccia parte del mio modo di essere, o comunque è quello che ricerco. Credo di perseguire questo approccio anche nella musica, quella che ascolto, ma soprattutto quella che faccio, non so se ci riesco in effetti, probabilmente mai fino in fondo, ma è quello che mi muove. E ho ritrovato questo approccio anche nelle persone che collaborano con me al progetto, non a caso stiamo facendo questo cammino insieme. Il chitarrista ad esempio, Pietro Girardi, mi ricorda sempre che “less is more”.
Per quanto riguarda le parti vocali, come dicevo sopra, la voce è in effetti il mio strumento, ciò che conosco. È tutto quello che ho e cerco di dare tutto quello che ho. E poi gli arrangiamenti vocali mi appassionano da sempre, dalle prime esperienze in coro, alla passione per il gospel, alla musica che ho ascoltato.

LB: Vorrei che mi dicessi brevemente due parole su ogni singola canzone. A partire dalla title track, che è una sorta di richiesta d’aiuto. A un certo punto canti “Should I go, should I go after them” riferendoti ai mostri. In che senso?

AB: Questo brano è nato da un sogno che mi ha lasciata parecchio turbata, sì insomma, un incubo direi. Ho sognato di svegliarmi e vedere due figure entrare in casa, due ombre che non riuscivo a identificare. Il ricordo che ho di questo sogno è piuttosto inquietante, ma le vedevo girare indisturbate e quindi ad un certo punto mi sono chiesta se fosse il caso di inseguirle e affrontarle e chiedere loro chi fossero e cosa facessero in casa mia. Poi scrivendo il brano questo sogno si è legato alle paure che fanno parte della mia vita di tutti i giorni, le mie insicurezze, ed ora in “Monsters” c’è tutto questo e molto altro.

LB: “Could you love me” racconta invece di una giornata negativa, a cui si vuole reagire con una richiesta d’amore…

AB: Sì, giornate che si ripetono ciclicamente, a volte durano ore, a volte durano mesi. Con questo brano ho provato a raccontarle a me stessa e agli altri. E questa richiesta d’amore, questo appello è allo stesso modo rivolto a me stessa, a chi mi sta intorno, a chiunque voglia accoglierlo.

LB: Wind, rain”: “So wind dry my tears / Take them high, oh so high / And rain drown my thoughts / Drown them deep into the sea”…

AB: È un inno alla Natura, che sa accogliermi nei momenti più bui. Qui posso trovare sollievo. A volte sentire il vento che ti accarezza è una vera consolazione. E nella pioggia che scende, vedo le mie lacrime che scendono, e mi fa sentire meno sola.

LB:I don’t want to live / ‘cause I’m afraid to die”: “This world” è una canzone dura, profonda…

AB: Così è come mi sento a volte, e credo non solo io. È un brano che mi fa sentire vicina come sensazioni al mondo che mi circonda, “questo mondo”. Parla di come la paura ti tolga opportunità. Di conoscere gli altri, conoscere te stessa. Per “tutelarci”, per non rischiare di rimanere delusi, sconfitti, per non sbagliare, rinunciamo in un certo senso a vivere.

LB: “Keep On Singing” sembra quasi un manifesto programmatico sul perché scrivi canzoni…

AB: Esatto, e del perché voglio continuare a farlo. Ci ho racchiuso dentro tanto di quello che mi ha fatto stare male nel tempo, tante delle cose che vorrei dimenticare a dire il vero. Ma queste canzoni mi hanno permesso di affrontare tutto ciò e anche dargli una nuova forma, fare parte della mia vita, come è giusto che sia, in un modo diverso e meno doloroso.

LB: Un po’ italiana, un po’ nigeriana. Quanto c’è oggi nella tua musica di quest’ultima origine? Sei intenzionata a esplorarla ancora di più?

AB: Assolutamente, e spesso è proprio la musica che guida in questo senso. Andando alla ricerca della mia identità, e delle mie origini, sono passata anche attraverso la musica della Nigeria e di altri afrodiscendenti. E poi cerco di mettere nella musica tutto quello che sono: sono sicura che si trovi anche questa parte, che è una parte fondamentale per me.

LB: In un’intervista su Rockit hai detto che il tuo papà naturale ha deciso di non fare parte della tua vita. Quanto ha influenzato questo aspetto della tua esistenza ciò che hai fatto sino ad ora a livello musicale…

AB: Nella musica e nella vita, sono quello che so, ma anche quello che non so. Ed è molta la parte di storia di me che non conosco. Mio padre appunto, la mia unica connessione con la Nigeria, non l’ho mai conosciuto, e quindi risposte e un’eredità culturale da lui non le ho ricevute. Le ho cercate per tentativi, spesso in direzioni completamente sbagliate, ma che fanno parte comunque di me. Ho cercato a modo mio, di mettere insieme due mondi, e non è un caso che alcune delle mie artiste preferite, abbiano una storia simile alla mia, metà nigeriane e metà europee: in loro ho intravisto questa sintesi, che vado cercando e che mi ha ispirata.

LB: Su questioni come la multiculturalità l’Italia è un paese che deve ancora fare dei passi avanti. In questo senso a Verona come ti trovi?

AB: Molto meglio ultimamente, anche se rimangono ancora molti nodi da risolvere. Durante la mia adolescenza però, non nego sia stato più difficile. Ho fatto fatica a volte, a sentire di poter appartenere a questo luogo, a vedermi rappresentata, sentirmi riconosciuta. La musica mi ha aiutata, mi ha permesso di vivere la mia città in un modo diverso e capire che anche la mia città mi poteva vedere diversamente da quello che mi aspettavo.

LB: Per finire, come mai hai scelto di sostituire la i del tuo cognome con la y, avvicinando la parola Bassy a “bassey”, simile ad “abasi”, che in lingua Efik significa “Dio, creatore”? Non credo sia solo una scelta compiuta per differenziarsi dalle migliaia di Anna Bassi che ci sono in Italia…

AB: Tante cose si sono mescolate in questo “nome d’arte”, ma ancora una volta riassumerei dicendo che cercavo di essere il più autentica possibile, racchiudere anche nel nome tutto quello che sono. Quindi la pronuncia è proprio quella del mio nome vero, un nome che mi identifica chiaramente, ma c’è un rimando anche alle mie origini nigeriane che sono una parte fondamentale di me. Alla spiritualità e alla creazione, intesa come l’atto di far nascere cose nuove, inedite. E infine in questo nome c’è anche un riferimento a Shirley Bassey, storica voce nera, anche lei di origini nigeriane.

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